Corsa contro il tempo per l’esame delle disposizioni relative al whistleblowing. Ma la fine della legislatura incombe
Dopo la lunga pausa estiva, torna a riunirsi la commissione Affari costituzionali del Senato, da subito impegnata nella ripresa dell’esame del ddl 2208 (Rel. Maran) relativo alle nuove disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato (c.d. Whistleblowing).
“To blow the whistle” significa, letteralmente, “soffiare il fischietto”, come un tempo faceva il poliziotto nel tentativo di far cessare un’azione illegale, e in questo senso si colloca il provvedimento in esame, ovvero realizzare le condizioni per incentivare le segnalazioni degli illeciti, utili a sconfiggere fenomeni corruttivi e malversazioni. Il solo fatto che tale parola non trovi un equivalente in italiano pare dirla lunga sul grado di maturità del nostro Paese in tema di lotta al malaffare.
Il testo, già approvato in prima lettura dai colleghi di Montecitorio nel gennaio 2016, ruota intorno alla modifica del ruolo del whistleblower, figura già presente nella legislazione nazionale, introdotta dalla L. n. 190/2012 (c.d. Legge Severino), in forza della quale è riconosciuta la possibilità, al pubblico dipendente, di denunciare all’autorità giudiziaria, alla Corte dei conti, all’Autorità anticorruzione o al proprio superiore gerarchico, le condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione della propria attività lavorativa.
In tema di whistleblowing, l’introduzione di tale fattispecie, nel nostro ordinamento, rappresenta una conquista culturale in un contesto dove, storicamente, dilaga l’omertà e la reticenza, radici di tanti mali nostrani. Ma la vera tutela del segnalante deriva dall’assoluta garanzia circa la sua identità, la quale non può essere rivelata senza il suo consenso, accanto a specifiche previsioni che mettono al riparo l’autore della segnalazione da possibili sanzioni, licenziamenti o misure discriminatorie per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
I primi risultati, a cinque anni dall’introduzione di tale istituto, fanno ben sperare: nel 2016 l’Autorità anticorruzione ha ricevuto 252 segnalazioni e, solo nei primi cinque mesi di quest’anno, si contano già 263 denunce.
Il provvedimento in discussione, adesso, introduce novità rilevanti, aumentando le garanzie del dipendente-segnalatore, nonché estendendo l’ambito soggettivo della sua applicazione: le tutele, una volta approvato il testo, verranno allargate anche ai collaboratori, consulenti con ogni tipologia di incarico o contratto, nonché ai lavoratori o collaboratori di imprese appaltatrici di opere o di beni e servizi in favore della amministrazione pubblica.
Un disegno di legge che, in fin dei conti, mette d’accordo tutte le parti politiche ma, con l’incombente fine della legislatura, tutti gli sforzi sin ora prodotti rischiano di vanificarsi. I lavori in aula procedono lentamente e continui sono i rinvii del testo di settimana in settimana.
Per scongiurare le sabbie mobili del Senato, già da qualche mese, da più parti, si è avvertita l’esigenza di alzare la voce, organizzando vere e proprie azioni di moral suasion nei confronti degli inquilini di Palazzo Madama. Manifestazioni, campagne stampa sino a veri e propri sit in per chiedere un rapido esame parlamentare del testo. Protagonisti di questa battaglia di legalità due associazioni da tempo impegnate su questo fronte, Trasparency International e Riparte il futuro.
Le due realtà sono scese in piazza rivendicando l’adozione – in tempi rapidi e certi – della legge in tutela dei whistleblower, promuovendo una petizione popolare dal titolo evocativo “Proteggiamo le #vocidigiustizia”, raccolta firme che ha già raccolto 60.000 adesioni.
Tra le autorevoli adesioni, anche quella del Presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone che, nei giorni scorsi, ha preso parte alla manifestazione in Piazza del Pantheon a Roma organizzata dall’associazione Riparte, richiamando anch’egli l’attenzione sulla necessità e l’urgenza di un’approvazione del testo prima dello scioglimento delle camere.
Tale melina parlamentare, probabilmente, dimostra ancora come sia duro il muro culturale da abbattere, che concepisce il whistleblower come una figura più vicina a quella del delatore o della “talpa”, invece che un soggetto che agisce nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione. E questo forse la politica dovrebbe capirlo in fretta, prima della fine del mandato e l’inizio di una campagna elettorale che già si preannuncia lunga e litigiosa.