Quando, nel 1962, il generale Charles De Gaulle, in concomitanza con la crisi algerina, riuscì, con un abile colpo di mano, a modificare la Costituzione francese, introducendo l’elezione popolare diretta del Presidente, le sinistre urlarono al rischio autoritario e alla deriva plebiscitaria ma l’instabilità degli esecutivi, l’iperparlamentarismo e la frammentazione politica, che avevano caratterizzato la Quarta Repubblica fin dalla sua nascita nel 1946, furono superati come d’incanto, grazie alla nuova forma di governo imperniata sulla preminente figura del Presidente e sulla forza dei due partiti maggiori, i gollisti e i socialisti.
Il sistema istituzionale si è dimostrato solido e funzionale per un sessantennio, fino a quando Macron, temendo l’ascesa del Rassemblement National di Le Pen, ha iniziato a escogitare trame e trabocchetti per aggirare e sostanzialmente ignorare il voto popolare. Già verso la conclusione del suo primo mandato, il consenso per il presidente ha cominciato a scemare a causa della drastica riforma previdenziale, che ricalcava le misure di quella italiana del 2011-12, osteggiata fortemente nelle piazze dai sindacati, dalla sinistra di Mélenchon e dalla destra lepenista.
Da allora, si sono succeduti diversi governi con una base parlamentare molto debole fino allo spartiacque delle elezioni europee dello scorso giugno. In seguito al clamoroso risultato della sconfitta del suo partito e della vittoria del Rassemblement National, Macron ha deciso, con una mossa azzardata, lo scioglimento anticipato delle Camere, pensando di poter bloccare o limitare il risultato della destra nazionalista. Alla luce della vittoria lepenista al primo turno, per impedire che Le Pen raggiungesse la maggioranza nel secondo, le altre formazioni politiche hanno formato dei cartelli elettorali a dir poco eterogenei al prezzo di bloccare completamente il sistema e rendendo impossibile formare una maggioranza parlamentare alternativa per i veti incrociati.
Macron per sbloccare lo stallo, ha nominato primo ministro Barnier, che però, dopo soli tre mesi, è stato sfiduciato dal Parlamento. Ora, si sono aperte le consultazioni per provare a formare un nuovo esecutivo e pare che i socialisti aprano alla possibilità di farne parte, ancora però non è chiaro insieme a chi. Improvvisamente, dunque, la Quinta Repubblica è ripiombata nell’instabilità cronica che aveva caratterizzato la Quarta ma le cause non sono contingenti, bensì strutturali e sono almeno tre: la mancanza di contestualità delle elezioni legislative con quelle presidenziali, che rischia, com’è avvenuto, di non produrre una maggioranza chiara e netta nelle Camere, la grave situazione economica del Paese, con un debito pubblico cresciuto enormemente dal post Covid e la crisi strutturale dei partiti storici.
Proprio questa crisi, che ha ridimensionato il peso istituzionale dei gollisti e dei socialisti, diede il la all’emergere della figura di Macron, che, da ministro di Sarkozy, riuscì a candidarsi alle presidenziali fondando il suo partito centrista En Marche, da cui, per quasi un decennio, e grazie alla riconferma all’Eliseo, ha potuto guidare la politica francese puntando sulle divisioni delle altre formazioni. Nel frattempo, le ali estreme, approfittando della crisi irreversibile della sinistra socialdemocratica e della destra liberale, hanno aumentato considerevolmente i propri consensi, minando il sistema dalle fondamenta.
Contestualmente, la forza elettorale del partito del presidente è diminuita a causa delle politiche di austerità intraprese e dell’esplosione repentina del debito pubblico, che nel secondo semestre del 2024 ha toccato i 3228,40 miliardi di euro, facendo precipitare tutti gli equilibri istituzionali. La gravità della situazione economica generale è tale che, pochi giorni fa, il Wall Street Journal ha titolato, non a torto, “La Francia è la nuova Grecia sulla Senna?” e la comunità finanziaria inizia a domandarsi come sia possibile che le agenzie di rating non abbiano ancora declassato una tale esposizione debitoria, mantenendo il giudizio ultra lusinghiero della tripla AAA, mentre il costo del debito pubblico francese ha superato per la prima volta quello della Grecia, con un rendimento dei titoli di Stato transalpini a 10 anni (Oat) del 3,02% contro il 3,01% dei titoli greci.
Ora, Macron, che è vittima delle proprie trame tese a frenare l’ascesa del Rassemblement National, pare non intenda dimettersi ma rischia seriamente di infilarsi in un vicolo cieco da cui sarà molto arduo uscire senza mettere fine anticipatamente alla sua carriera politica e al suo secondo mandato presidenziale. Infatti, di fronte a lui si aprono due possibilità: consentire la formazione di un governo guidato da Marie Le Pen, sconfessando tutte le manovre ordite finora per evitarlo, o provare, come sembra, ad approntare un nuovo esecutivo estremamente debole e dalle basi fragilissime, che rischierebbe di durare pochi mesi o addirittura poche settimane, macchiando definitivamente e irrimediabilmente come fallimentare l’esperienza politica del macronismo. In una terza ipotesi, ma alquanto improbabile, le sue dimissioni potrebbero condurre a nuove elezioni e a una prima storica presidenza Le Pen.
Una vittoria piena del partito più a destra della Francia potrebbe innescare un vero cambio di equilibri politici a Bruxelles, cementando una maggioranza inedita nel Parlamento europeo, formata da popolari, conservatori e patrioti, molto più in sintonia con la nuova Amministrazione Trump. Una Ue a trazione destra-centro potrebbe favorire il disegno italiano e meloniano di destrutturare il modello attuale semi federale, virando decisamente verso quello confederale per restituire consistenti quote di sovranità agli Stati membri, riformare in senso più realista e pro crescita il Patto di Stabilità e conferire alle istituzioni europee pochi e definiti compiti in determinate materie, quali la politica monetaria, fiscale, bancaria e militare, lasciando tutto il resto alla competenza esclusiva degli Stati nazionali.
La lezione che l’Unione europea e la sinistra italiana devono trarre dalla crisi francese, che deriva e dipende anche da quella parallela degli storici alleati tedeschi, è che farsi beffe del voto popolare e degli umori elettorali dei cittadini conduce sempre, presto o tardi, non al trionfo di un presunto populismo ma alla inevitabile rovina politica.