I dati Istat mettono in evidenza le piccole “sfumature” impercettibili a livello di dato nazionale. Nord e Sud divisi, ma esistono anche tanti dualismi che insistono sugli stessi territori. Tutti i dati su lavoro, benessere economico e innovazione tecnologica
Anche quest’anno l’Istat ha pubblicato l’aggiornamento dei dati del “benessere” dei territori.
E anche quest’anno i dati hanno avuto poca visibilità, soprattutto in relazione a quella che invece viene riconosciuta a quelli nazionali.
L’importanza di questi indicatori del territorio è invece tale per cui sarebbe il caso di riservare a questi numeri tutt’altro trattamento.
La nota diffusa dall’Istat qualche giorno fa ne è una prova lampante.
“La multidimensionalità del benessere equo e sostenibile si coglie bene attraverso l’articolazione dei profili territoriali, spesso non in accordo con il tradizionale gradiente nord-sud….. Le province e le città metropolitane di una stessa regione o ripartizione geografica possono infatti presentare profili molto diversi che rimandano a veri e propri dualismi territoriali. Ciò vale sia per il Mezzogiorno, generalmente diviso tra aree svantaggiate e aree ultra-svantaggiate, sia per il Centro-nord del Paese dove, in un quadro generale di maggiore benessere, emergono distanze ampie per alcuni domini o per singole determinanti del Bes tra le province di una stessa area. In molti casi le differenze territoriali sono distribuite nello spazio geografico e costituiscono vere e proprie specificità di singoli contesti locali. Ma si riscontrano anche polarizzazioni e disuguaglianze strutturali, sostenute da reciproche influenze e effetti di “contagio” tra province limitrofe, che si riflettono in segmentazioni nette e ampie tra il Centro-nord e il Mezzogiorno.”
Inoltre, la lettura territoriale del benessere, basata su misure di qualità adeguata, è utile ad approfondire la valutazione sugli aspetti distributivi.
Il tema dei divari territoriali è infatti di interesse anche per la programmazione nazionale, e, ovviamente, per le politiche locali.
Di tutto questo si trova traccia nell’iniziativa “How’s life in your region? Measuring Regional and Local Well-being for Policy Making” dell’OECD (2014), nel progetto “E-frame”, nelle linee guida “Europa 2020 per le città e i territori”.
Dunque la misurazione e il monitoraggio dei vari indicatori a livello locale è di grande importanza per il Paese, soprattutto se il Paese in questione è l’Italia.
Numeri alla mano, infatti, si può vedere come le differenze territoriali vedono il Mezzogiorno in costante svantaggio rispetto al resto del Paese sia nell’occupazione che nella mancata partecipazione al lavoro, nonostante gli andamenti alterni registrati durante le recenti crisi economiche. Le penalizzazioni sono maggiori e più persistenti per i giovani e per le donne in tutte le aree del Paese, soprattutto nel Mezzogiorno.
Nello stesso ambito, particolare è la situazione del centro Italia dove si rileva una certa eterogeneità che evidenzia un sistematico svantaggio per le province laziali (eccetto Roma) che si trovano sempre su posizioni medio-basse degli indicatori del lavoro, cui fa da contrappeso il vantaggio di alcune province toscane e di Roma, che gravitano su posizioni medio-alte.
Sul fronte del benessere economico, invece, dice l’Istat che “dopo la flessione registrata nel periodo 2012-2014, il reddito medio disponibile pro capite è tornato a salire, in modo significativo e diffuso dal punto di vista territoriale, segnando, a livello nazionale, un +3,6% tra il 2014 e il 2016 (circa 600 euro in più per residente, in valori correnti). Tale variazione è la risultante di una crescita più contenuta nel Centro e nel Nord-Ovest (+2,9% e +3,2%) e più decisa nel Mezzogiorno e nel Nord-est (+3,8% e +3,6%). Nell’ultimo biennio una crescita sostenuta, intorno al 10%, si rileva nelle province di Lucca e Benevento, contrapposta alla sostanziale stabilità di Olbia-Tempio, Macerata, Gorizia, Firenze (con incrementi che non raggiungono l’1%) e alla, seppur lieve, contrazione di Monza-Brianza (-0,5%). Le divergenze tra il Centro-nord e il Mezzogiorno restano elevate, come conseguenza di diverse condizioni del mercato del lavoro, delle caratteristiche strutturali socio-economiche dei territori a confronto, dell’azione redistributiva dello Stato e degli Enti locali.
L’indicatore del reddito medio disponibile pro capite rappresenta infatti una stima delle risorse a disposizione delle famiglie, derivanti dal complesso dei redditi da lavoro (che rappresentano il capitolo più significativo) e da capitale, dei proventi delle attività di autoconsumo e dei trasferimenti netti che affluiscono alle famiglie. Secondo le stime dell’Istituto Tagliacarne, nel 2016 il reddito medio disponibile pro capite in Italia è di circa 18.200 euro. Nel Nord-ovest è di 21.500 euro, 8mila euro in più del valore medio del Mezzogiorno (+60%). A livello territoriale si passa da meno di 11mila euro a Crotone e Vibo Valentia a 26.700 euro circa nella città metropolitana di Milano. Un reddito pro capite superiore ai 19mila euro si osserva in tutte le province del nord Italia, in quelle più interne della Toscana e nella città metropolitana di Roma (20.600 euro); sotto i 16mila euro si trovano solo i territori del Meridione e le province del Lazio, eccetto Roma. Nord, Centro e Mezzogiorno presentano significative differenze al loro interno, con contrasti tra le città metropolitane, che sono tendenzialmente su livelli maggiori, e le province più piccole della stessa regione: Milano, Bologna (25.300 euro pro capite), Genova (23.300), Firenze (22.300) e Roma si contrappongono rispettivamente a Brescia, Rimini, Imperia, Grosseto, e al complesso delle province laziali, in particolare Latina. I valori medi, in questi ultimi casi sono compresi tra 13.600 e 18.300 euro circa. Il benessere economico delle famiglie e degli individui dipende anche dallo stock di patrimonio (attività reali e finanziarie) accumulato nel corso del tempo. Il patrimonio pro capite in Italia declina complessivamente, da circa 155.900 euro del 2012 a 153.300 del 2016 (stime dell’Istituto Tagliacarne; dati in termini nominali). I contrasti sono più accentuati nel Nord, dove si passa dal -9,6% di Parma al +12,4% di Bolzano. Nel resto della penisola si distingue la performance della provincia di Messina (+7,9%) mentre la massima contrazione interessa la città metropolitana di Roma (-12,8%). Si conferma quindi il quadro di un netto dualismo con l’accentuarsi delle divergenze territoriali.
Nell’ambito della ricerca, innovazione e creatività due indicatori in particolare consentono invece di valutare le differenze territoriali: la mobilità dei giovani laureati italiani e l’incidenza di occupazione culturale nel settore privato. Anche qui, le indicazioni dell’Istat sono di grande rilevanza. “La mobilità dei giovani laureati italiani, seppur in maniera indiretta, spiega le differenti opportunità di occupazione qualificata che connotano i territori. Nel 2017 il saldo per l’Italia è in perdita, sono circa 10.500 i giovani tra i 25 e i 39 anni che hanno trasferito la propria residenza all’estero (-4,1 per mille). Considerando anche i flussi interni, oltre a quelli da e per l’estero, il panorama territoriale rimane estremamente polarizzato, con il Mezzogiorno che nello stesso anno vede emigrare in media 23 laureati ogni mille residenti, il Centro dove il saldo è solo lievemente negativo (-3 per mille) e il Nord che invece registra un saldo positivo (+8 per mille). La penalizzazione dei territori meridionali è generalizzata ma evidenzia forti differenze. Tutte le province registrano perdite, comprese tra il -9 per mille di L’Aquila e il -59 per mille di Crotone. Tra i territori del Centro-nord emergono in negativo Imperia (-19), Latina (-18) e Rovigo (-17), e le province di Grosseto, Reggio Emilia e Piacenza, i cui saldi, nel tempo, invertono il segno da positivo a negativo. Tra le città metropolitane, nell’ultimo anno solo Bologna (+31,8) e Milano (+32) hanno tassi positivi ed elevati; seguono a distanza Torino (+4,7) e Firenze (+3,8). Per Roma il 2017 si chiude quasi in pareggio (-0,7) mentre tutte le altre città metropolitane registrano perdite di varia entità, più contenute per Cagliari, Genova e Venezia, più consistenti negli altri casi (Reggio Calabria -42 per mille). Se letto in serie storica, l’indicatore di mobilità dei giovani laureati evidenzia saldi negativi diffusi in buona parte del Paese e indica nelle province di Latina, Verbano-Cusio-Ossola e Vicenza i territori che hanno subito le perdite maggiori in termini di capitale umano tra il 2011 e il 2017. Nello stesso periodo la Lombardia e l’Emilia-Romagna si confermano tra le regioni più attrattive: in particolare Milano, Bologna e Padova mantengono valori positivi per tutto il periodo. Gli addetti nelle imprese culturali rappresentano un sottoinsieme dell’occupazione culturale complessiva, che include i lavori svolti in altri settori dell’economia privata e nei settori pubblici e non profit. Considerando i soli lavoratori (dipendenti e indipendenti) nelle imprese attive in questi settori, nel 2016 si contano in Italia oltre 250mila addetti, l’1,4% degli addetti totali nelle imprese. Questo valore medio, in lieve declino a partire dal 2008, mostra dinamiche territoriali piuttosto diversificate. Al Nord i valori dell’indicatore, ancorché bassi, delineano una relativa stabilità dell’occupazione culturale (intorno all’1,5% per tutto il periodo), nel Mezzogiorno sono in costante declino (dall’1,2% del 2008 all’1,0% del 2016) mentre il centro Italia è la ripartizione trainante malgrado un leggero calo nell’ultimo anno (1,8%). Tra le città metropolitane spiccano Milano e Roma, con un valore prossimo al 3% nel 2016, seguite da Palermo, Firenze e Venezia (intorno al 2%)”