Sì, ok, il Re è sempre il Re, però…Però anche basta, ecco. Diciamocelo: King non è mai stato davvero uno scrittore horror. Non come questo termine viene comunemente inteso, per lo meno. Al netto di macchine possedute, pagliacci assassini e cimiteri inquieti, infatti, il vero meccanismo della paura presente nelle storie kinghiane è sempre derivato da qualcosa di molto più quotidiano e meno spettacolare: lo sbriciolarsi dei rapporti familiari, il dolore di relazioni malate, l’infanzia traumatizzata, e il doloroso senso del tempo che passa, cambiando tutto per sempre.
Sono aspetti che ogni fan dello scrittore del Maine conosce bene, e che anzi, negli anni sono stati in parte ragione della sua clamorosa fortuna, donando profondità a vicende ben più articolate di semplici ghost stories ben agghindate.
Qual è dunque la nota dolente di questo nuovissimo Billy Summers (Sperling&Kupfner, 545 pg.,21,90 euro)?
Essere la punta – per il momento finale – di una parabola che ha reso non da oggi Stephen King un gran narratore di storie umanissime, ma dove la componente orrorifica e soprannaturale (nel tempo virata per lo più verso atmosfere più propriamente thriller) è ormai una mera cornice. Lo spunto da cui prende avvio Billy Summers, è dei più rodati: abbiamo un killer giunto all’ultimo incarico, un sicario malinconico che si prepara a concludere la carriera.
Quasi il corrispettivo criminale del classico poliziotto ad un giorno dalla pensione visto in tanti film, tanto da possedere persino un barlume d’etica: accetta solo incarichi che prevedano la morte di vittime “che lo meritano”. Ma siccome – cosa anche questa non nuova fin dai tempi di Misery – nei romanzi di King si parla spesso e a lungo anche di scrittura e di scrittori, ecco che vediamo il nostro assassino prezzolato prepararsi ad assumere i panni fittizi di un autore dilettante per avvicinare la vittima designata. Del resto, anche nella realtà, accarezza già da un po’ l’idea di dedicarsi a carta e penna,
una volta a riposo…
E’ dunque questo lo scenario su cui si innesta la vicenda. Ed è su questa base che decine, centinaia di pagine scorrono alla ricerca di quello che dovrebbe essere il nerbo del romanzo: il brivido della tensione. E invece no. Proprio questo latita, con pochi momenti salienti annacquati da descrizioni, riflessioni, e tanto inchiostro versato al fine di rendere i personaggi vivi e concreti (cosa che accade senza dubbio) ma causando anche più di uno sbadiglio all’onesto lettore che, attirato dal nome di King giganteggiante in copertina, forse si aspettava qualche cosa di più dell’autobiografia del protagonista e dell’incontro con un paio di donne fatali.
Se King rimane una pietra miliare per la diffusione di un certo immaginario orrorifico pop (aiutato anche dall’attenzione di massa al filone che lui stesso contribuì ad alimentare negli anni ’70 – ’80), il XXI secolo gli è stato fatale in termini di posizionamento nell’universo dell’incubo. Via via sempre più velocemente, il suo posto sulla mappa si è spostato su coordinate in cui risulta affondare di rado il colpo fino in fondo, cannibalizzando addirittura se stesso nel riproporre certi temi (chi ha nominato The Outsider?). In questo contesto, anche gli occasionali picchi di adrenalina diventano più segni di un’occasione perduta che vera fonte di soddisfazione.
Tuttavia, di sicuro, ai summenzionati fan del Re, il nuovo romanzo piacerà tantissimo in ogni caso, e il libro venderà la consueta mole spropositata di copie. Abituati nel tempo a dosi sempre minori di paura e maggiori di buoni sentimenti, si sentiranno pienamente soddisfatti. E però se noi oggi, dopo quasi quarant’anni, rileggiamo ancora con un brivido Pet Sematary, a chi farà paura Billy Summers fra soli dieci?