Il Primo Ministro britannico ha presentato il suo piano per superare lo scoglio nordirlandese e arrivare a un accordo con l’Ue. Ma i tempi per le trattative sono strettissimi, ed è forte il sospetto che da entrambe le parti il vero obiettivo sia far ricadere sull’altra la responsabilità di un eventuale no deal
È arrivata in extremis, quando più di qualcuno aveva ormai iniziato a dubitare della sua esistenza, la proposta di Boris Johnson per arrivare a un accordo che allontani lo spettro di una Brexit traumatica il prossimo 31 ottobre.
Mercoledì 2 ottobre, in occasione dell’intervento di chiusura della convention annuale del Partito Conservatore, il Primo Ministro britannico ha infatti annunciato le linee fondamentali della sua strategia per venire a capo del rebus che va avanti dal giugno 2016, in seguito dettagliate in una lettera inviata al presidente uscente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker.
In concreto, il piano messo a punto da Johnson ricalca per alcuni aspetti l’intesa raggiunta nel novembre 2018 dalla sua precedessora Theresa May (e bocciata in ben tre occasioni dalla Camera dei Comuni), proponendo invece una assetto totalmente differente dal cosiddetto backstop nordirlandese. Bersaglio principale dei Brexiteer negli ultimi mesi, la ‘polizza assicurativa’ concordata da May con i vertici dell’Unione prevedeva che, una volta terminata il 31 dicembre 2020 la fase di transizione post divorzio, l’intero Regno Unito avrebbe continuato fino a nuovo ordine a far parte dell’unione doganale europea per evitare il ritorno di un confine visibile tra Ulster e Repubblica d’Irlanda, in passato fonte di tensioni e violenze.
La soluzione studiata dal leader dei Tories mantiene il periodo di transizione fino a fine 2020, ma prevede che a partire dal 1° gennaio 2021 l’Irlanda del Nord abbandoni con la Gran Bretagna l’unione doganale, rimanendo però allineata almeno fino al 2025 alle regole del mercato interno Ue riguardanti, tra gli altri, i prodotti agroalimentari e manifatturieri. Il nuovo status dei rapporti tra Belfast, Dublino e il resto d’Europa sarebbe inoltre vincolato al consenso del Parlamento nordirlandese, che ogni quattro anni avrebbe il potere di pronunciarsi sull’opportunità di proseguire o meno il regime di allineamento a Bruxelles.
Malgrado Boris Johnson abbia assicurato che non sia nelle sue intenzioni ripristinare checkpoint di frontiera in Irlanda, né mettere a repentaglio gli accordi di pace del Venerdì Santo del 1998, è inevitabile che un’uscita dell’intero Regno Unito dall’unione doganale comunitaria renderebbe non più sostenibile l’attuale contesto di libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali nell’isola. Per di più, qualora trovasse applicazione lo scenario prospettato dal Primo Ministro, Londra si troverebbe in un primo momento anche a dover filtrare i beni in transito da e per l’Ulster, per via del legame esclusivo della regione agli standard Ue.
Proprio il rischio latente di un ritorno a una separazione fisica tra Irlanda del Nord ed Eire, unito al potere di veto di cui disporrebbero i politici di Belfast, rappresenta la ragione principale della freddezza con cui istituzioni e Stati membri dell’Unione europea hanno accolto la proposta di accordo di Johnson. Tanto Juncker quanto il presidente del Consiglio Ue (anch’egli destinato a lasciare il proprio incarico alla fine di ottobre) Donald Tusk, infatti, se da un lato hanno evidenziato i passi in avanti del Governo britannico rispetto alle irremovibili posizioni di partenza, dall’altro hanno chiarito che molta è la strada che dev’essere fatta per poter arrivare a un’intesa.
Tuttavia, considerato che mancano poco più di 3 settimane alla data del divorzio tra Gran Bretagna e Ue e che all’epoca di Theresa May i negoziati per il perfezionamento di un accordo durarono oltre due anni, la sensazione che si ricava dagli ultimi eventi è quella che da entrambe le parti gli attori in gioco siano soprattutto preoccupati di non apparire come i colpevoli di un’eventuale rottura definitiva dei rapporti, lasciando agli altri (in una sorta di ‘gioco del cerino’) la responsabilità di dichiarare chiusa la partita e aprire le porte al baratro del no deal.
Un’impressione di questo tipo appare in particolar modo motivata dai toni che il premier britannico continua a usare, ribadendo a ogni occasione che il 31 ottobre il Regno Unito abbandonerà l’Europa con o senza un accordo sulla separazione, all’insegna del mantra ‘Get Brexit done‘ (‘Portare a compimento la Brexit’) e senza curarsi della legge che lo obbligherebbe a chiedere una proroga della data di uscita al 31 gennaio 2020 qualora fallissero le discussioni con l’Unione.
In aggiunta, affermare che la propria offerta è negoziabile solo marginalmente non denota una grande predisposizione alle trattative, senza dimenticare che un’ipotetica intesa tra Regno Unito e Unione europea dovrà comunque essere ratificata dall’Aula di Westminster, dove i numeri continuano a essere risicati per i conservatori e le attività dovrebbero venire di nuovo sospese dall’8 al 14 ottobre, alla vigilia del cruciale Consiglio Ue del 17 e 18 del mese (al quale Boris Johnson potrebbe addirittura non presentarsi, se la situazione dovesse precipitare).
Dunque, con la mossa di Johnson sono iniziate le giornate decisive per il futuro dei rapporti tra Londra e Bruxelles. A questo punto, tutti saranno chiamati a scoprire le carte e a chiarire, finalmente, se gli sconvolgimenti dei mesi scorsi nascondevano la volontà di arrivare a un accordo che tuteli entrambe le sponde della Manica o se si si trattava di un bluff giocato sulle inquietudini e le incertezze di milioni di persone.