Se il no deal verrà scongiurato, il 29 marzo il Regno Unito non lascerà l’Ue. Theresa May cerca il via libera in extremis al suo accordo ‘ricattando’ conservatori e nordirlandesi: se fallirà il divorzio dovrà attendere a lungo
Al termine di una settimana di votazioni a Westminster che hanno aggiunto altro caos a una situazione ormai a metà tra il farsesco e il surreale, anche l’unica certezza di lunga data della vicenda Brexit sembra essere venuta meno: difatti, venerdì 29 marzo probabilmente il Regno Unito non lascerà l’Unione europea.
Procedendo con ordine, la Camera dei Comuni nei giorni scorsi ha prima respinto per la seconda volta (seppure con un margine inferiore rispetto alla bocciatura del 15 gennaio) l’accordo di ritiro dall’Ue siglato lo scorso dicembre dalla premier Theresa May, per poi escludere la prospettiva di una Brexit no deal e, infine, accogliere la mozione del Governo che punta a chiedere a Bruxelles il rinvio al 30 giugno della data di uscita dall’Europa, qualora il Parlamento britannico approvi un’intesa per la separazione entro il 20 marzo. Una proroga breve, dunque, dettata dall’esigenza di varare gli atti legislativi necessari per consumare il divorzio, che si trasformerebbe in una richiesta di rinvio lungo (pari ad almeno un anno) laddove Westminster non fosse in grado di licenziare alcun withdrawal agreement da qui alla prossima settimana.
Dal momento che non ci sono altri testi in circolazione all’infuori del contestatissimo accordo presentato da May, il primo ministro britannico martedì 19 marzo tenterà per la terza volta di ottenere il via libera della Camera dei Comuni, puntando tutto sull’ultima carta rimastale: un ‘ricatto psicologico’ dell’ultima ora nei confronti dei falchi euroscettici del Partito Conservatore e degli alleati nordirlandesi del DUP, i quali saranno obbligati a scegliere tra un’uscita dall’Europa a condizioni secondo loro nefaste e un’estensione indefinita dell’attuale limbo in cui si trova il Paese, tale da aprire la porta a scenari di ogni tipo (compreso un referendum per la revoca della Brexit).
In altri termini, quello messo a punto da Theresa May è un autentico azzardo da giocare sul destino di cittadini e imprese della Gran Bretagna,paradossalmente con buone probabilità di riuscita, come testimoniato dai toni più cauti ora adottati dagli esponenti di punta dello European Research Group, fazione di riferimento per i brexiteers più radicali tra i conservatori.
Qualora riuscisse davvero a piegare il Parlamento al proprio volere, la premier dimostrerebbe senza dubbio che la caparbietà nel non cambiare posizione, nonostante le enormi divisioni nel suo partito, e la capacità di incassare colpi di ogni tipo negli ultimi mesi erano motivate da una strategia sì rischiosa, ma alla fine vincente. Tuttavia, per quanto miracoloso possa apparire un epilogo di questo genere (considerato il vicolo cieco in cui il primo ministro ha trascinato l’intero Regno Unito al termine di quasi due anni di trattative con la Commissione Ue), il prestigio e l’autorevolezza del primo ministro sono stati ridotti ai minimi termini dagli eventi legati alla Brexit, come dimostrato in ultimo luogo dalle scene di ministri che in più votazioni si schierano contro il Governo cui appartengono.
Non che l’opposizione viva una situazione migliore. Dopo la fuoriuscita di alcuni parlamentari a causa del mancato supporto del leader Jeremy Corbyn alla causa dei Remainers, il Partito Laburista giovedì scorso ha preso la decisione di astenersi su un emendamento che per la prima volta proponeva al Parlamento la possibilità di un secondo referendum, insistendo sul proprio piano per una soft Brexit (come da previsioni rispedito al mittente) e su un’ulteriore richiesta di nuove elezioni generali, in un tatticismo il cui fine risulta ormai difficile da comprendere.
Al di là delle conseguenze che il processo continuerà ad avere sulla politica britannica, va chiarito che tutte le considerazioni fatte finora devono fare i conti con un dato di fatto: ogni variazione delle tempistiche dell’articolo 50 sul recesso di uno Stato dall’Ue deve essere approvata all’unanimità dagli altri Paesi membri.
Di conseguenza, sarà il Consiglio europeo di giovedì 21 marzo a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio dell’uscita della Gran Bretagna, e in quella sede basterà un solo no per provocare il no deal, per quanto un simile scenario sia ritenuto negativo anche a Bruxelles. I Governi del continente e le Istituzioni dell’Unione hanno manifestato chiaramente che sarebbero disponibili a concedere una proroga solo a fronte di novità significative e di motivazioni circostanziate, il che lascia immaginare una loro preferenza per un rinvio lungo e propedeutico a un cambio di strategia da parte di Londra, malgrado risulti difficile ipotizzare una contrarietà all’estensione al 30 giugno, una volta che Westminster abbia dato l’ok all’intesa raggiunta con fatica dalla Commissione guidata da Jean-Claude Juncker.
In conclusione, a poco più di 10 giorni da quello che è stato a lungo il solo punto di riferimento dell’intera questione si naviga ancora in mare aperto, con l’unica possibilità di approdo nel breve periodo rappresentata da un autentico ‘porto delle nebbie’. Considerando che l’approvazione dell’accordo di ritiro del Regno Unito dall’Ue costituisce solo il primo tempo della partita, cui dovrà seguire la definizione di nuove relazioni economiche e commerciali tra le due parti, si può con ragionevole certezza affermare che il romanzo della Brexit è destinato ad accompagnarci ancora a lungo in futuro.