Gli ultimi voti di Westminster hanno confermato la poca linearità degli attori in scena. I prossimi sviluppi a metà febbraio, ma il ‘no deal’ ormai incombe…
di Andrea Spuntarelli
Continua a regnare la confusione sotto il cielo della Brexit. Difatti, a meno di due mesi dalla data di uscita del Regno Unito dall’Unione europea (prevista per il prossimo 29 marzo), ancora una volta le decisioni prese tra Downing Street e Westminster hanno tutt’altro che chiarito quale sarà l’esito di una vicenda che ormai tiene con il fiato sospeso entrambe le sponde della Manica.
Se possibile, i numerosi voti andati in scena alla Camera dei Comuni martedì 29 gennaio hanno reso ancora più irrazionali le posizioni degli attori presenti sulla scena, già messe a dura prova lo scorso 15 gennaio dalla sonora bocciatura (432 no, a fronte di 202 sì) dell’accordo per il ritiro della Gran Bretagna dall’Ue, raggiunto a novembre 2018 dai rispettivi vertici istituzionali.
A prima vista, non si capisce quale sia la logica che porterà, da qui alle prossime due settimane, il primo ministro Theresa May a rinegoziare con Bruxelles un patto che aveva impiegato oltre un anno e mezzo a chiudere, e che fino a pochi giorni fa lei stessa definiva come l’unica alternativa a due scenari nefasti: no deal (ossia l’uscita del Regno Unito dall’Europa senza accordo) e no Brexit. Oltretutto, tanto i presidenti di Commissione e Consiglio europei, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, quanto i principali leader degli altri 27 Stati dell’Unione hanno prontamente ribadito che l’accordo è e rimarrà non modificabile.
Di conseguenza, lo scenario più probabile è che il 13 febbraio (termine indicato dall’emendamento del deputato conservatore Graham Brady approvato dai Comuni) la premier britannica torni a Westminster senza aver ottenuto cambiamenti degni di nota sul fronte del cosiddetto backstop irlandese, la ‘polizza assicurativa’ che manterrebbe la Gran Bretagna nello spazio doganale europeo al fine di evitare il ritorno di un confine tra l’Ulster protestante e l’Eire cattolica. Una misura, questa, vista come un tradimento della sovranità nazionale dai falchi della Brexit e che rischia di riportare in auge la delicata questione etnico-religiosa dell’Irlanda del Nord.
A quel punto, i parlamentari avrebbero l’opportunità di votare nuovamente sulla strategia del Governo per tentare di superare l’impasse, ma anche in questo contesto la condotta dei protagonisti appare tutt’altro che lineare: malgrado nelle scorse settimane si fosse manifestata una contrarietà bipartisan nei confronti del no deal, martedì la Camera dei Comuni ha respinto l’unico emendamento che puntava esplicitamente a far slittare di alcuni mesi la scadenza del 29 marzo, differendo l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea. In seguito, i deputati si sono limitati a dare il via libera a un testo nel quale si faceva riferimento a un generico rifiuto dell’ipotesi di un’uscita disordinata dall’Ue, senza tuttavia vincolare l’Esecutivo ad alcuna azione.
Come se ciò non bastasse, il quadro è reso ancor più caotico dalla faida interna al Partito Conservatore, dove i Brexiteers più oltranzisti sono pronti a votare nuovamente contro Theresa May (come hanno fatto in massa il 15 gennaio) qualora l’esito della nuova fase di negoziati non li convinca, così come avevano salvato il primo ministro dalla mozione di sfiducia presentata dai laburisti dopo aver provocato, solo 24 ore prima, la più ampia sconfitta parlamentare di sempre per un capo di Governo britannico.
La poca lucidità nella gestione del dossier Brexit non ha risparmiato neanche Jeremy Corbyn, leader del Partito Laburista e capo dell’opposizione. Dopo essersi rifiutato per mesi di chiarire quale fosse la sua proposta alternativa in merito all’abbandono dell’Unione e alle future relazioni del Regno Unito con il resto dell’Europa, concentrandosi soltanto sull’obiettivo di arrivare a Downing Street sfruttando gli errori dei conservatori, Corbyn si trova ora costretto a interloquire con quella stessa premier che ha sempre descritto come parte del problema, non avendo da proporre altro al di fuori di generici appelli a difesa dei diritti dei lavoratori e idee velleitarie di permanenza nell’area doganale comunitaria.
Dunque, fino alla metà di febbraio continueranno a susseguirsi dichiarazioni criptiche, polemiche estemporanee ed equilibrismi a opera delle varie parti in gioco. Il rischio più grande è che anche questa ulteriore scadenza si riveli inutile per uscire dall’incertezza che dura in sostanza da giugno 2016, e che a quel punto sia il calendario a far pendere inesorabilmente la bilancia dalla parte del no deal, cui si legherebbero conseguenze molto negative sia per il Regno Unito che per l’Ue, ben al di là del mero ambito commerciale (verrebbe infatti a cadere l’applicazione di norme comunitarie relative a ogni settore politico-economico).
Con tutta probabilità, un esito di questo tipo incrinerebbe in modo decisivo il prestigio di cui godono da tempo immemore le istituzioni della più antica democrazia rappresentativa d’Europa, simboli per definizione dell’efficienza e ragionevolezza britanniche.