L’uscita del Regno Unito dall’Ue all’origine di parlamentari dei Labour e dei Tory. Il 27 febbraio nuova occasione per risolvere lo stallo a Westminster
di Andrea Spuntarelli
Con la scadenza del 29 marzo distante poco più di un mese e le trattative tra Londra e Bruxelles sul backstop irlandese vicine a un punto morto (in base alle ultime indiscrezioni, l’obiettivo dei contatti tra Theresa May e Jean-Claude Juncker sarebbe ormai quello di raggiungere un’intesa onorevole senza riaprire l’accordo bocciato il 15 gennaio dalla Camera dei Comuni), la frattura provocata dalla Brexit nella società britannica si è definitivamente manifestata anche a Westminster.
Nella mattinata di lunedì 18 febbraio, infatti, 7 parlamentari laburisti hanno abbandonato il proprio partito per dare vita a The Independent Group, formazione che già sui propri account social rende esplicito come il suo obiettivo sia quello di cambiare e ricostruire la politica nel Regno Unito. Ai fondatori si è unita martedì 19 febbraio un’ottava deputata del Labour, imitata l’indomani da 3 colleghe provenienti dai conservatori, le quali hanno così conferito un carattere bipartisan allo scisma.
Sebbene non sia stata l’unica ragione all’origine delle 11 defezioni (numero che potrebbe crescere da qui ai prossimi giorni), ognuno dei fuoriusciti ha evidenziato come il referendum del giugno 2016 e il negoziato non ancora concluso con l’Ue sarebbero state le cause scatenanti di una mutazione genetica dei due principali partiti britannici, a parer loro ostaggi rispettivamente dei falchi euroscettici appartenenti alla corrente European Research Group – ERG (nel caso del Partito Conservatore) e di una base massimalista, che ha trovato in Jeremy Corbyn il leader ideale per imprimere al Labour una netta svolta a sinistra.
Nonostante si trovino all’opposizione e non stiano gestendo direttamente l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, i laburisti si trovano in una posizione molto delicata dal punto di vista elettorale, che potrebbe minarne le future chance di tornare a Downing Street. Nell’elettorato del partito è infatti più palese che altrove la spaccatura tra Remainers e Leavers, dal momento che gli attivisti più giovani e residenti nelle grandi città (spina dorsale della corrente Momentum, cui Corbyn deve la sua elezione a segretario nel 2015 e la sua conferma nel 2016) sono schierati a sostegno dell’ipotesi di un secondo referendum, mentre gli esponenti delle associazioni sindacali e i votanti nelle aree industriali dell’Inghilterra settentrionale (tradizionali bastioni del Labour) continuano a essere favorevoli alla Brexit.
Jeremy Corbyn ha cercato di accontentare entrambe le anime dei laburisti, non scartando alcuno scenario, concentrandosi sull’obiettivo di sfiduciare il Primo Ministro e ottenere il ritorno al voto, laddove i Comuni avessero bocciato l’accordo raggiunto lo scorso dicembre da Theresa May. Tuttavia, la sua strategia è fallita a neanche un giorno di distanza dalla sconfitta del Governo a Westminster, e Corbyn ha dovuto a quel punto schierarsi, optando per lo scenario di un abbandono soft dell’Ue, nella sua visione garantito dalla permanenza del Regno Unito nell’unione doganale comunitaria e dall’ancoraggio degli standard ambientali e giuslavoristici britannici a quelli europei.
Com’era inevitabile che fosse, la decisione del leader ha scontentato molti tra gli attivisti e i deputati fautori della campagna pro Europa People’s Vote, e se a ciò si aggiungono le accuse piovute nei suoi confronti durante gli ultimi mesi di aver tollerato manifestazioni di antisemitismo all’interno del partito non risulta sorprendente che un gruppo di eletti abbia abbandonato il Labour (venerdì 22 febbraio si è verificata la nona defezione tra i parlamentari), né che altri stiano valutando seriamente di farlo.
Per quanto riguarda i conservatori, la situazione non è di certo più serena, tanto che, una volta archiviata in un senso o nell’altro la pratica Brexit, c’è da aspettarsi un’autentica resa dei conti nelle file dei Tories.
A dispetto delle previsioni, Theresa May è riuscita fin qui a rimanere in sella sia come premier che come guida del partito (in base alle regole della formazione, fino al mese di dicembre il suo doppio incarico è al riparo da minacce interne), ma in termini di credibilità politica ha pagato un prezzo molto alto, tanto da aver già dovuto promettere ai suoi colleghi che non si ricandiderà a Primo Ministro nel 2022. La sua gestione ondivaga e poco lungimirante delle trattative con l’Unione europea, costellate da tabù e ultimatum prima annunciati e poi smentiti, ha scontentato ampi settori del partito, secondo i quali la May non ha avuto la forza di anteporre gli interessi della Gran Bretagna alla volontà di non subire una scissione da parte dell’ERG, esponendo il Paese al rischio concreto di un no deal dalle conseguenze nefaste per l’economia e minando, in modo forse irrecuperabile, l’immagine del Partito Conservatore come forza pragmatica e di buon senso.
La prossima data da tenere in considerazione nel calendario della Brexit è quella del 27 febbraio, quando il Primo Ministro dovrà presentare a Westminster i risultati dei suoi ultimi contatti con Bruxelles. Qualora non arrivassero novità da Downing Street, la Camera dei Comuni avrebbe una nuova opportunità per assumere il controllo della situazione e scongiurare almeno l’uscita senza accordo dall’Ue, senza tralasciare le note alternative legate a una proroga dell’articolo 50 (in base al quale la Gran Bretagna dovrebbe abbandonare l’Unione il 29 marzo) e allo svolgimento di un secondo referendum. Non va escluso che lo stallo possa risolversi con una presa di coscienza, da parte dei falchi conservatori, che l’accordo bocciato a gennaio sia l’unica alternativa praticabile allo spettro del no deal, ma un epilogo di questo tipo potrebbe prendere forza non prima della metà di marzo.
Sia quale sia la piega che prenderanno gli eventi, la nascita di The Independent Group sta a testimoniare come la Brexit sia un processo che dispone di una forza dirompente tale da minacciare perfino il bipartitismo britannico, asse portante delle istituzioni del Regno Unito e radicato sul piano economico e sociale, prima ancora che ideologico.