La primo ministro britannica a inizio giugno annuncerà la data delle sue dimissioni. Falliti i negoziati con i laburisti, l’accordo stretto con Bruxelles è destinato a essere bocciato per la quarta volta da Westminster. Unica variabile i risultati delle Europee del 23 maggio
Com’era apparso probabile sin dalle prime battute, è naufragata la strategia finale messa a punto, ormai oltre un mese fa, dalla primo ministro britannica Theresa May per sbloccare l’impasse sulla Brexit: raggiungere un compromesso con il leader laburista Jeremy Corbyn in grado di superare lo scoglio del voto di Westminster e permettere al Regno Unito di abbandonare l’Unione europea, se possibile anche prima della deadline del 31 ottobre stabilita dal Consiglio Ue del 10 aprile scorso.
Il fallimento dei negoziati tra i vertici di Tories e Labour è stato infatti annunciato oggi 17 maggio dallo stesso leader laburista Jeremy Corbyn, il quale in una lettera ha comunicato alla premier conservatrice che a suo giudizio non esistono più i margini per concordare una strategia di divorzio dall’Europa, malgrado le posizioni dei due partiti si siano avvicinate su alcune tematiche (diritti dei lavoratori e protezione ambientale in testa).
Sull’esito negativo delle discussioni ha pesato certamente l’intransigenza dei gruppi parlamentari di entrambe le formazioni, che ad ampia maggioranza hanno da subito avvertito i propri leader che avrebbero avversato rispettivamente ogni ipotesi di permanenza della Gran Bretagna nell’Unione doganale comunitaria (nel caso dei conservatori) e qualsiasi schema di intesa che non prevedesse l’obbligatorietà di un referendum confermativo (posizione sostenuta dalla gran parte dei militanti laburisti, ma rispetto alla quale Corbyn continua a mantenere un approccio ambiguo).
Ma più di ogni altra cosa ha influito il protrarsi delle manovre interne al Partito Conservatore per rovesciare la primo ministro, malgrado alcune settimane fa avesse annunciato l’intenzione di abbandonare Downing Street non appena si fosse consumata la separazione di Londra dall’Ue. La pressione cui è stata sottoposta dai propri colleghi è stata tale, che giovedì 16 maggio Theresa May è stata costretta ad annunciare che nella prima settimana di giugno renderà note le tempistiche delle sue dimissioni da ogni incarico di governo e di partito.
A quel punto, di conseguenza, si aprirà il processo per l’individuazione del nuovo o della nuova leader dei Tories (sono previste due votazioni: con la prima i 313 deputati selezioneranno i due candidati da sottoporre al giudizio finale degli iscritti), al cui termine è plausibile venga incoronato un Brexiteer duro e puro come Boris Johnson, ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri da tempo sostenitore del no deal, ovvero l’uscita senza accordo della Gran Bretagna dall’Ue.
Inoltre, all’inizio di giugno dovrebbe avere luogo il quarto voto della Camera dei Comuni sul Withdrawal Agreement raggiunto dalla premier con Bruxelles nell’autunno del 2018, e respinto dal Parlamento già in tre occasioni. A meno di sconvolgimenti imprevedibili, anche questa volta l’esito dovrebbe essere negativo per May, così come non ci si attendono sorprese dalla nuova tornata di votazioni indicative di Westminster sulle possibili vie di uscita dall’impasse Brexit, in programma per i giorni precedenti le elezioni Europee di giovedì 23 maggio.
Proprio le votazioni per indicare i 73 europarlamentari che il Regno Unito invierà a Bruxelles, a 3 anni di distanza dal famoso referendum del 2016, potrebbero avere ripercussioni inattese sullo scacchiere politico del Regno Unito. In base ai sondaggi, i Tories dovrebbero subire un’autentica batosta (in linea con le ingenti perdite registrate nel voto locale del 2 maggio) a opera del Brexit Party di Nigel Farage, indicato da tutte le rilevazioni come vincitore della contesa. Anche il Labour andrebbe incontro a un calo causato dall’allontanamento di fasce di elettorato favorevoli al Remain, orientate a distribuire le loro preferenze tra liberaldemocratici, Verdi e Change Uk, formazione fondata da ex parlamentari conservatori e laburisti.
Sebbene risulterà difficile ricavare dei trend politici di portata generale (per le Europee è in vigore un sistema proporzionale ben diverso dal modello maggioritario articolato in collegi usato per Westminster), non mancherà chi interpreterà i risultati delle urne come una seconda consultazione sui rapporti tra Regno Unito e Unione europea, e non è del tutto da escludere che una netta affermazione del partito di Farage possa spingere la Camera dei Comuni a rompere lo stallo sull’Europa per timore tanto di perdere definitivamente la fiducia dei cittadini che scelsero il Leave nel 2016 quanto della prospettiva di un no deal a ottobre (in realtà, i deputati conservatori favorevoli a una hard Brexit potrebbero trovare nel voto del 26 maggio una ragione per non abbandonare le loro posizioni radicali).
In definitiva, dopo la quiete dell’ultimo mese la Gran Bretagna è attesa nelle prossime settimane da una nuova fase di incertezza e instabilità su una decisione cruciale per il proprio futuro politico-economico, senza contare che sullo sfondo rimangono questioni che potrebbero addirittura minarne l’integrità: da una parte il possibile ritorno del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda e, dall’altra, il potenziale risveglio delle ambizioni indipendentiste della Scozia, la cui primo ministro Nicola Sturgeon è intenzionata a rimanere nell’Ue anche a costo di tentare la via di un nuovo referendum sulla secessione di Edinburgo da Londra.
Date la complessità e la quantità dei nodi da sciogliere, difficilmente potrà bastare l’uscita di Theresa May da Downing Street per risolvere la situazione.