L’ostinazione di Theresa May ha portato il Regno Unito a un passo dall’uscita traumatica dall’Ue. Dal Consiglio europeo ok a proroga al 22 maggio se Westminster approverà l’accordo negoziato dalla premier, già bocciato due volte. Altrimenti, i britannici avranno tempo fino al 12 aprile per trovare in extremis un Piano B
Come nella migliore tradizione dei racconti thriller, bisognerà aspettare l’ultimo momento utile per conoscere l’epilogo del processo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, noto a tutti con l’acronimo Brexit.
Se già gli eventi della scorsa settimana erano riusciti nell’impresa di aumentare i dubbi di osservatori e addetti ai lavori, travolgendo perfino la data simbolo di venerdì 29 marzo (per due anni punto di riferimento delle trattative tra Londra e Bruxelles), quanto accaduto negli ultimi giorni ha fatto precipitare il Regno Unito in una crisi di sistema, di fronte alla quale i 27 Stati membri dell’Ue sono dovuti intervenire con decisione per offrire ai britannici un margine di emergenza di due settimane per evitare in extremis il no deal, ipotesi nefasta per tutte le parti in causa.
Volendo ricostruire con ordine gli avvenimenti più recenti, si può affermare che sia stato l’intervento dello speaker di Westminster John Bercow di lunedì 18 marzo a dare il via agli sconvolgimenti che hanno reso la situazione quasi fuori controllo. Facendo riferimento a una prassi parlamentare risalente addirittura al Seicento, Bercow ha infatti stabilito che il Governo non avrebbe potuto sottoporre l’accordo per il ritiro dall’Europa al voto della Camera dei Comuni senza apportarvi modifiche sostanziali, poiché l’Assemblea aveva già bocciato per la seconda volta il testo pochi giorni prima, lo scorso 12 marzo.
Theresa May, che sperava di ottenere l’ok al suo Wihdrawal agreement entro mercoledì 20 marzo, a quel punto è stata costretta a scrivere al presidente del Consiglio Ue Donald Tusk per chiedere una proroga della data di uscita dall’Unione al 30 giugno, rifiutandosi (a quanto risulta, su pressione dei Brexiteers più radicali) di mantenere l’impegno preso con il Parlamento di concordare con i partner europei un rinvio lungo, laddove Westminster non avesse approvato alcun accordo prima della riunione dei Capi di Stato e di Governo Ue di giovedì 21 marzo.
Inoltre, la primo ministro il 20 marzo sera si è rivolta al pubblico britannico dalla sua residenza di Downing Street, pronunciando un duro discorso con il quale ha attribuito ai parlamentari la responsabilità di non aver chiuso il dossier Brexit a distanza di quasi tre anni dal referendum del 2016, dicendosi poi vicina ai cittadini, a suo dire esausti dai tentennamenti della classe politica sulla questione.
La tenacia e l’ostinazione di May hanno dovuto tuttavia fare i conti con l’irritazione dimostrata nei suoi confronti dai leader degli altri 27 Paesi dell’Unione, che nel loro summit di Bruxelles hanno respinto quanto proposto dalla premier conservatrice.
Al termine di una lunga serata di discussione, il Consiglio europeo ha invece concesso a Londra una proroga ‘tecnica’ al 22 maggio (vigilia delle elezioni per il nuovo Parlamento europeo), a condizione che la Camera dei Comuni dia il via libera entro il 29 marzo all’accordo sottoscritto nel novembre 2018. Se ciò dovesse avvenire, ci sarebbe lo spazio per approvare tutti gli atti legislativi legati alla separazione e avrebbe inizio una fase di transizione, fino al dicembre 2020, necessaria per la definizione delle future relazioni tra Regno Unito e Ue.
Qualora anche la terza votazione di Westiminster sull’intesa negoziata dalla primo ministro abbia esito negativo, come al momento sembra probabile, il divorzio slitterà al 12 aprile e per la Gran Bretagna si aprirà un periodo di riflessione di soli 15 giorni, durante il quale decidere se concordare in extremis un ‘Piano B’ sulla cui base chiedere a Bruxelles un ulteriore rinvio della Brexit (accettando di prendere parte alle Europee di maggio) o optare per il distacco senza accordo dall’Unione.
Dunque, tutto dipenderà da come i parlamentari del Regno Unito si esprimeranno nel definitivo meaningful vote, che dovrebbe tenersi martedì 26 o mercoledì 27 marzo. Nessuno sa cosa accadrà, e non va escluso alcuno scenario: dall’approvazione miracolosa dell’accordo May a una proroga sine die dell’uscita del blocco comunitario giustificata da un nuovo referendum popolare (ipotesi che difficilmente vedrebbe ancora Theresa May nel ruolo di primo ministro), fino alla revoca dell’articolo 50 del Trattato sull’Ue, che cancellerebbe tout court la procedura di separazione di Londra dall’Unione.
Ciò nonostante, alla partenza della settimana decisiva per l’intera vicenda ha senza dubbio ripreso forza l’opzione del no deal, che avrebbe ripercussioni rilevanti per l’economia del continente e colpirebbe in primis il flusso di cibo, medicinali e merci attraverso la Manica e il confine irlandese. Malgrado le numerose smentite da parte dei protagonisti, è questo il finale al momento più plausibile, soprattutto a causa dell’irremovibilità di May nel non recedere dai tabù cui si è affidata nei circa due anni di trattative con l’Europa, fino a portare il proprio Paese sull’orlo di un salto nel vuoto. Per ironia del destino, la premier conservatrice per salvarsi avrà bisogno del supporto di quella stessa Aula di Westminster sulla quale ormai pare aver perso il controllo e che, oltretutto, ha accusato di essere l’unica colpevole dei suoi errori di strategia.
Per quanto emozionante per un osservatore esterno, questa incertezza estrema riflette in realtà il fallimento dell’intera classe politica britannica nel gestire l’evento più rilevante nella storia europea degli ultimi decenni. Un fallimento, che potrebbe minare in modo irreparabile la fiducia collettiva nelle istituzioni rappresentative finora più solide del nostro continente.