Il 7 giugno la primo ministro si dimetterà da leader dei conservatori, entro luglio il successore (favorito Boris Johnson). Anche in questo caso, fatale il dossier europeo. Ma rispetto al 2016 le divisioni tra Leavers e Remainers si sono radicalizzate ed evitare il no deal il 31 ottobre sarà impresa ardua
Venerdì 7 giugno si concluderà il mandato di Theresa May come primo ministro del Regno Unito. In base al suo annuncio del 24 maggio, l’inquilina ormai uscente di Downing Street in quel giorno rassegnerà le dimissioni da leader del Partito Conservatore, rimanendo in carica come capo del Governo per il mero disbrigo degli affari correnti.
Come accaduto al suo predecessore David Cameron, caduto sotto i colpi di un referendum che contava di vincere agevolmente, anche per May è risultato fatale il dossier Brexit, che da giugno 2016 non ha fatto altro che seminare divisioni e caos tanto tra la classe politica quanto all’interno della società civile. Rispetto a 3 anni fa, tuttavia, la spaccatura tra Leavers e Remainers è aumentata esponenzialmente, tanto che in entrambi i campi a farla da padroni sono coloro i quali rifiutano ogni forma di compromesso, propugnando rispettivamente l’uscita senza accordo della Gran Bretagna dall’Ue e lo svolgimento di un secondo voto popolare per ripristinare la situazione pre 2016.
Questa radicalizzazione, acuita da alcuni errori commessi dalla quasi ex primo ministro (su tutti, l’iniziale posizione “no deal is better than a bad deal” e la sottovalutazione del ruolo del Parlamento nel processo di separazione da Bruxelles), è emersa in tutta evidenza dai risultati delle elezioni Europee del 23 maggio, che hanno visto il trionfo del neonato Brexit Party di Nigel Farage (31,6% dei voti) e un’ottima affermazione di forze europeiste doc come Liberaldemocratici e Verdi (20,3% e 12,1% dei consensi). Il tutto a scapito di laburisti e conservatori, con i primi relegati al terzo posto e i secondi crollati al di sotto del 10%.
La fase di selezione del successore di Theresa May inizierà lunedì 10 giugno e si articolerà in due fasi: una prima votazione riservata ai 314 deputati del Partito Conservatore, in seguito alla quale l’elenco dei pretendenti si ridurrà a due nominativi, su cui si pronunceranno in ultima istanza i circa 124 mila iscritti alla formazione. Il procedimento dovrebbe concludersi entro la fine di luglio, e al momento tra gli 11 parlamentari che hanno avanzato la propria candidatura il favorito è Boris Johnson, ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri noto per le sue posizioni radicalmente euroscettiche e per i suoi eccessi caratteriali, sebbene non vadano sottovalutati altri componenti dell’Esecutivo May come Jeremy Hunt, Sajid David e Michael Gove.
A prescinderà da chi arriverà al numero 10 di Downing Street, da qui ai prossimi mesi i nodi dell’impasse Brexit si ripresenteranno puntualmente sia all’interno dei confini britannici che sul piano delle interlocuzioni tra Londra e la Commissione Ue. Il cambio di assetto a Bruxelles e Strasburgo emerso dal recente voto continentale, infatti, si annuncia troppo lieve per pensare che possa essere messa in dubbio l’indisponibilità dell’Unione a modificare il Withdrawal agreement siglato da Jean-Claude Juncker e Theresa May nell’autunno 2018, e allo stesso modo a Westminster continuano a non emergere maggioranze relativamente a potenziali soluzioni per la separazione dall’Ue.
In definitiva, non basterà di certo l’uscita di scena di May a risolvere il rebus e non va dimenticato che al momento l’opzione di default è quella di un no deal il prossimo 31 ottobre, scenario che acquisirebbe maggiore forza qualora divenisse primo ministro un falco come Johnson. Rimangono poi sullo sfondo le incognite in merito al futuro stesso del Regno Unito, sulla cui integrità aleggiano le minacce Irlanda del Nord e Scozia, e le incertezze in merito all’adeguatezza del sistema di common law britannico per fare fronte al grande sforzo normativo che una ridefinizione dei rapporti con Bruxelles comunque richiederebbe. Allo stato attuale, invece, appare meno concreta l’ipotesi di nuove elezioni generali a settembre, alle quali laburisti e conservatori si presenterebbero in chiara difficoltà per la continua ascesa dei concorrenti più radicali sulla questione europea.
Spetterà agli studiosi, tra qualche anno, dare un giudizio obiettivo sulla travagliata esperienza di Theresa May alla guida del Governo della Gran Bretagna. In ogni caso, ciò che si può affermare con ragionevole certezza già da ora è che se quello di May è stato un compito reso arduo dalla più grave crisi istituzionale degli ultimi decenni, la persona che ne prenderà il posto sarà attesa da un’impresa ardua: evitare da qui a 5 mesi una rottura traumatica che avrebbe serie ripercussioni su entrambe le sponde della Manica.