Il nuovo governo guidato da Draghi, salutato come riformatore e innovativo in plurimi settori pubblici nevralgici del nostro Paese, nel nome del Recovery Fund, ha prodotto sin qui tante affermazioni, di principio. Si pensi ai due ambiti più discussi: la burocrazia pubblica e la giustizia.
Sulla burocrazia pubblica il ministro “di ritorno” Renato Brunetta ha stupito, positivamente, tutti “sbianchettando” il suo giudizio sui dipendenti pubblici da “fannulloni da tornellare” a “eccellenze da valorizzare”. Molte le presenze nei talk show per decantare le lodi del personale che, grazie al blocco delle assunzioni, per lo più è lo stesso di un decennio fa, quando la musica, però, era diversa. Ma, come si suol dire, solo gli stolti non cambiano mai opinione, e il prof. Brunetta stolto non è e si è reso conto che, se nella peggior pandemia e crisi che il mondo abbia mai visto negli ultimi settanta anni l’Italia non si è fermata evidentemente i pubblici dipendenti così fannulloni poi non dovevano essere.
E così, gli ospedali hanno continuato a curare, gli avvocati hanno continuato a difendere gli Enti, i sussidi (pochi o molti) hanno continuato ad essere erogati, i buoni spesa, buoni affitti, la proroga di tasse e altri servizi hanno continuato ad essere garantiti. Il ministro della Pa, quindi, ha fatto molte dichiarazioni promettenti sull’intenzione di valorizzare i professionisti e/o il personale apicale incaricato dell’esercizio di funzioni organizzative e gestionali, pur non chiarendo in quale contratto collocare cotanta valorizzazione (comparto? Area?), dato che non è irrilevante tale precisazione nel momento in cui è già stato sottoscritto l’atto di indirizzo. Riformare non significa solo aumentare gli stipendi, ma è un quid pluris: è mappare le professioni iscritte all’albo, è verificare se i migliori professionisti sono attratti dal pubblico impiego in termini di crescita e di merito, è pagare i migliori, non è invece limitarsi a blandire i sindacati per spalmare poco a tutti. Il discorso sarebbe lungo e non è questa la sede.
Ma è sulla giustizia che gli occhi sono ancor più puntati, con le tante aspettative sul neo ministro, Marta Cartabia, che dovrebbe marcare differenza rispetto al passato. La Cartabia è un ministro tecnico, una professoressa costituzionalista che, in giovane età si è trovata nella fortunata condizione di essere stata nominata componente della Corte Costituzionale, esperienza di eccelso livello. L’unico novennato del nostro panorama istituzionale.
Varcata la soglia del ministero della Giustizia, subissata di richieste e pretese, ha subito dichiarato che “sarebbe sleale” impegnarsi in “programmi inattuabili”, precisando che occorre piuttosto “affrontare i problemi più urgenti e improcrastinabili”, quali la riorganizzazione amministrativa, la riforma della giustizia civile e tributaria, le modifiche al sistema penale e del Csm. Chapeau.
Al programma si è aggiunto un problema “fuori sacco” che l’Unaep (Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici) un anno fa ha sollevato per prima nel panorama politico, istituzionale e giornalistico, in un momento in cui a nessuno pareva importare del futuro di migliaia di giovani aspiranti avvocati. Oggi, in compenso, tutti i soggetti che, fino all’attenzione sollevata un anno fa, si disinteressavano beatamente, compresi gli Ordini, si sono impadroniti del tema e non si parla d’altro che della riforma dell’esame di Stato per l’idoneità forense. La soddisfazione è comunque quella di aver posto in luce un problema in un momento storico in cui il buio sui praticanti era totale.
Restano gli altri nodi, dunque, sul tavolo del Ministro. Tutti molto suggestivi, ma dove sta la novità? Non c’è ministro che da almeno trent’anni non modifichi la giustizia civile e la giustizia penale, e non c’è ministro degli ultimi decenni che non affermi di voler modificare il Csm, di voler dividere le carriere dei giudici e dei Pm, di voler modificare la prescrizione. Vedremo ora se alle buone intenzioni seguano finalmente i fatti.