Martedì 2 dicembre 2014 è una data che rimarrà per sempre scolpita sui libri di storia di una città che di storia ne ha fatta tanta, indirizzando e guidando per secoli il destino di un continente intero e non solo.
Quel giorno chi l’ha vissuto a strettissimo contatto con i protagonisti di quella vicenda, certamente non potrà mai dimenticarlo. L’impatto mediatico e umano fu devastante, uno tsunami che ha lasciato senza fiato, facendoci vivere sulla pelle la valanga di accuse, illazioni e infamità riversate su organi di informazione, social, in giro ovunque per la Capitale e per tutto il Paese.
Uno tsunami di fango che, tuttavia, non ha travolto un mondo intero o un’area politica, come qualcuno ha provato a scrivere in questi anni ribadendolo in questi giorni, forse per andare all’incasso in vista delle imminenti elezioni comunali.
Uno tsunami che, va detto apertamente, ha coinvolto solo ed esclusivamente Gianni Alemanno, i suoi cari e i pochissimi collaboratori rimasti vicino a lui dopo la “Caporetto” elettorale contro Ignazio Marino.
Nel 2013, infatti, vale la pena ricordarlo, pochi amici e qualche collaboratore, al primo exit poll che dava il chirurgo dem in vantaggio, rimasero con lui, mentre tanti di quelli che nei cinque anni di Campidoglio erano stati al suo fianco, nessuno senza un (legittimo) tornaconto, improvvisamente gli voltarono le spalle e letteralmente sparirono con un atteggiamento tutt’altro che cameratesco. Una fuga che l’indomani del 3 dicembre 2014 fu anche peggiore.
Escluso qualche rarissimo caso, e fra questi è d’obbligo citare su tutti Francesco Storace, fiero e leale oppositore di Alemanno in Campidoglio, e altrettanto fiero e leale sostenitore al suo fianco negli anni bui di Mafia Capitale, quasi tutti i leader storici della destra hanno ben pensato di prendere le distanze dai cinque anni di governo in Campidoglio, come se incarichi, nomine, scelte politiche fossero state prese da Alemanno, in piena autonomia e solitudine.
Roba da libro delle favole, specie per chi conosce bene la fauna che abita il bosco, o meglio, il sottobosco della destra romana che nel 2008 era legittimamente “affamata” di potere per aver conquistato la città per la prima volta nella storia repubblicana.
Una narrazione corretta di questi lunghi sette anni ci dice, tuttavia, che c’è un nodo irrisolto o, forse, venuto al pettine proprio alla lettura della sentenza della Cassazione che ha cancellato l’infame accusa di corruttore per Alemanno.
La destra romana e nazionale, divisa in correnti e spifferi, quella che il 28 aprile del 2008 accompagnava con le braccia tese il neo sindaco Alemanno fin sulla scalinata del Campidoglio, con cori fascisti al seguito, quella che tentò in ogni modo di condizionarne, con un impatto purtroppo negativo, i cinque anni di sindacatura, oggi, quella destra che siede in maggioranza e all’opposizione in Parlamento alza i calici (perchè ha capito furbescamente che le braccia tese non portano più voti) e si professa da sempre al fianco di Alemanno, riabilitandolo nel mondo tutto onore e rispetto che chi ha vissuto da dentro quegli anni sa benissimo che non esiste e, forse, non è mai esistito.
2.411 giorni di silenzio e abbandono, di colpi bassi per prendere le distanze ogni volta che un’indiscrezione uscita dalle migliaia di pagine di indagine rischiava di toccare il proprio orticello. “Alemanno chi?”, come se la giunta e molti ruoli cardine affidati anche nelle partecipate non facessero capo ai principali partiti del centrodestra.
2.411 giorni nei quali, messo per un attimo da parte il dramma umano vissuto dalle persone coinvolte, è stata emessa la condanna più grave per la Capitale, alla cui guida sono arrivate amministrazioni che hanno dovuto governare con il marchio della Mafia costruito ad arte, forse per tenere la città ostaggio della burocrazia e di quei poteri forti e malsani che le impediscono di sovrastare per tradizioni e potenzialità tutte le più grandi e belle metropoli del mondo.
2.411 giorni nei quali, e questo a mio giudizio è la colpa più grave, la destra romana ha barattato politicamente Roma per il governo nazionale, accettando che cinque anni di governo Alemanno, con tutte le storture e gli errori commessi, divenissero per tutti, incomprensibilmente, una colpa da espiare mettendo la testa sotto la terra e rinunciando a costruire una classe dirigente competente, in grado oggi di scegliere candidati con un percorso politico trasparente, senza andarli a pescare facendo zapping sulle radio romane, con tutto il rispetto per il professor Enrico Michetti, o, nelle aule di giustizia, con tutto il rispetto per la dottoressa Simonetta Matone.
Se qualche mese fa, rivolti alla destra e alla sinistra chiedevamo dalle pagine di LabParlamento di tirare giù la maschera, quella maschera oggi è scesa del tutto e nella faccia di molti camerati per caso che salgono sul carro del “cadavere” miracolosamente risorto non si sbaglia di molto se ci si intravede lo sguardo dell’avvoltoio che pregusta l’occasione buona per tornare a banchettare in Campidoglio.