Deutscheland uber alles amavano ripetere i tedeschi a tutti per far notare la loro superiorità nei principali indici di performance economici nel Vecchio Continente. Oggi, però, il boom economico del secondo dopoguerra e il modello invidiabile di economia sociale di mercato, che ha diffuso benessere e sviluppo generalizzato per un sessantennio, sembrano solo un pallido ricordo. Tutti i pilastri su cui si basava questo modello sono venuti meno e il futuro ha assunto le fattezze di una nebulosa in cui appare sempre più difficile districarsi. Ma andiamo con ordine per capire i presupposti di questo unicum e la sua evoluzione nei decenni passati.
Dopo la rovinosa sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, la Germania era ridotta letteralmente a un cumulo di macerie e, per evitare che potesse scatenare nuovamente un conflitto dalle proporzioni globali, venne separata in due Stati, Est e Ovest, sotto il controllo rispettivo dei sovietici e degli americani. La sua capitale venne dapprima divisa in 4 zone sotto il controllo delle potenze vincitrici, USA, Gran Bretagna, Francia, Urss e, in seguito alla costruzione del Muro di Berlino da parte dei sovietici nel 1961, fu divisa in due parti. Si era arrivati a una decisione così drastica per l’acuirsi delle tensioni tra americani e russi, soprattutto dopo l’allestimento del ponte aereo con cui l’Amministrazione Truman, nel 1948, era riuscita ad aggirare il blocco di Berlino, ideato da Stalin per ridurre alla fame la popolazione berlinese.
La Germania Ovest, nonostante la stretta supervisione e il serrato controllo statunitense, sotto cui fu sostanzialmente scritta la Legge Fondamentale del 1949, riuscì a superare una crisi economica devastante, paragonabile solo a quella del primo dopoguerra, anche grazie al Piano Marshall e a una congiuntura internazionale forse irripetibile che, dalla seconda metà degli anni ’50 fino ai primi anni ’70 coinvolse Stati Uniti, Giappone ed Europa Occidentale. Ma ciò fu possibile anche grazie alla determinazione e allo spirito di sacrificio di tutto il popolo tedesco che seppe risollevarsi e iniziò a primeggiare in tutti i principali indicatori di sviluppo economico, soprattutto nell’export, invadendo i mercati internazionali con i suoi prodotti manifatturieri di assoluta eccellenza, dalle automobili, alle moto, fino agli elettrodomestici di largo consumo.
Inserita saldamente nella Nato, sotto l’ombrello della protezione militare americana, la Germania Ovest riuscì a costruire un sistema economico incredibilmente performante, che era in grado di sostenere un welfare state molto efficiente, simile a quello laburista inglese degli anni ’30, che seguendo i dettami del Piano Beveridge, si proponeva di dare assistenza a individui e famiglie “dalla culla alla tomba”.
Alla fine del 1989, in seguito al crollo del Muro di Berlino e alla fine della Guerra Fredda, il cancelliere Helmut Kohl decise di accelerare il processo di unificazione con la Germania Est, ma, si accorse che il costo per risollevare dalla depressione economica e civile un grande territorio piegato da 45 anni di oppressione comunista, sarebbe stato enorme. Così, nel 1990, Kohl escogitò un capolavoro strategico e diplomatico, ottenendo il via libera all’operazione da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e, soprattutto, di Italia e Francia, in cambio dell’apparente abbandono del marco tedesco, la moneta più potente di tutto il Continente.
Andreotti e Mitterrand acconsentirono all’unificazione delle due Germanie, illudendosi che l’euro, la nuova moneta intorno a cui si stava negoziando il Trattato di Maastricht, che venne poi firmato nel febbraio del 1992, avrebbe garantito paritariamente tutte le Nazioni aderenti alla nuova Unione monetaria. Invece, non si resero conto o non ebbero la forza di porvi rimedio prima della sottoscrizione del trattato, che i parametri economici assolutamente stringenti, lo statuto e la mission dai poteri molti limitati della Banca Centrale e, soprattutto, il tasso di cambio proposto nel passaggio dalle rispettive divise nazionali a quella comune, erano tagliati alla perfezione sulle esigenze tedesche e sulle caratteristiche del marco, che, infatti, ebbe il privilegio unico del cambio 1 a 1, ossia 1 marco per 1 €.
Kohl, quindi, fu così abile da far pagare sostanzialmente ai paesi aderenti all’Unione i costi, altrimenti insostenibili, dell’unificazione tra est e ovest, senza essere penalizzato minimamente dalla rinuncia alla sua moneta nazionale, e al contempo, riuscì a imbrigliare e a limitare fortemente la concorrenza economica di paesi come l’Italia, che fu costretta a rinunciare a un grande vantaggio sistemico di cui poteva usufruire nell’export, grazie alle svalutazioni competitive della lira.
L’unico leader occidentale che capì il disegno che si stava realizzando e i grandi pericoli che comportava rinunciare alla sovranità monetaria, fu il Primo Ministro britannico, Margaret Thatcher, che decise di non aderire all’eurozona, ribandendo nel famoso discorso di Bruges del 1988 e alla Camera dei Comuni nel 1990, i suoi tre no alle proposte di Delors su Commissione, Parlamento e Consiglio europeo. Questa tenaglia, messa in atto abilmente dal Cancelliere tedesco, incominciò a far sentire i suoi effetti nefasti sulla pelle delle nazioni euromediterranee, con l’entrata in vigore dell’euro, che imponeva il rispetto di stringenti livelli di spesa e l’adesione piena alle depressive politiche di austerità, che aumentarono a dismisura, per la più classica eterogenesi dei fini, il livello del debito pubblico italiano.
La Germania, invece, continuò a beneficiare di regole perfettamente tagliate sulle sue esigenze, che, nella lunga era Merkel, durata più di un quindicennio, dal 2005 al 2021, gli permisero di accrescere notevolmente il surplus commerciale, limitando al massimo le spese militari, pagando a basso costo l’import di gas dalla Russia e stringendo un asfissiante link economico commerciale con la Cina. Questo modello però, che si era salvato dalla crisi dei debiti sovrani del 2011, è andato definitivamente in crisi con l’insorgere dell’emergenza sanitaria da Covid-19 nel 2020 e, soprattutto, allo scoppio della guerra russo-ucraina nel 2022. Contemporaneamente, seguendo la sperimentata tattica di spacciare esigenze e strategie nazionali come interessi generali europei, la Germania ha spinto l’Unione a seguire la nefasta strategia dell’elettrificazione dell’automotive, illudendosi di poter concorrere alla pari con il gigante asiatico, vero e proprio monopolista del settore.
Tuttavia, il progetto sta fallendo miseramente e ha portato la Volkswagen ad annunciare la chiusura di tre stabilimenti in patria, scatenando le risentite reazioni di opinione pubblica, sindacati e partiti. Nel frattempo, dopo la scoperta della presenza di fondi neri di spesa pubblica fuori bilancio, il cosiddetto governo a semaforo composto dalla colazione tripartita di verdi, liberali e socialdemocratici, guidato dal cancelliere Scholz, è andato in crisi a causa della grave situazione economica e dovrà fronteggiare un delicatissimo voto di fiducia che potrebbe portare ad elezioni anticipate nei primi mesi del 2025. Elezioni che vedono favoriti i popolari, i quali, anche alla luce della recente vittoria di Trump, sposteranno probabilmente l’asse politico della Ue verso destra, abbandonando lo storico sodalizio con socialisti e liberali per allearsi con conservatori e patrioti, con l’intento, non più nascosto, di riformare profondamente, se non addirittura di cassare definitivamente, l’esiziale Green Deal europeo.
Una ripresa economica tedesca fondata su basi completamente diverse da quelle che ne hanno guidato le strategie politiche per più di un ventennio, potrebbe innescare una congiuntura positiva per tutto il Continente ma per tornare ad essere la locomotiva d’Europa, la Germania dovrà far cadere i suoi veti sul debito comune, sull’unione bancaria e ripensare profondamente la ratio del nuovo Patto di stabilità, per evitare di strozzare la crescita economica generale dell’Unione ancora una volta.