Siti e piattaforme web non sono responsabili per la violazione dei diritti d’autore soltanto se si limitano a “trasportare” video, immagini e ogni sorta di materiale su di essi caricati. In caso contrario, ovvero qualora intervengano attivamente e consapevolmente nella gestione dei contenuti, sono da ritenersi “hosting attivi” e, dunque, perseguibili per quanto accade nella rete. Ad affermarlo, lo scorso 13 dicembre, la Suprema Corte di Cassazione, chiamata ad esprimersi in relazione ad un ricorso intentato da RTI-Mediaset nel lontano 2011.
Al centro dello scontro la pubblicazione non autorizzata di alcuni programmi della società berlusconiana da parte della società statunitense Break Media, titolare del portale www.break.com; secondo i legali della società di Cologno Monzese, proprio sul sito di Break Media erano comparsi infatti quaranta filmati, tratti da alcune puntate di programmi di grido tra cui Buona Domenica, Matrix, Veline, Paperissima, Ciao Darwin, Corrida, Studio Aperto, Maurizio Costanzo Show, Le Iene, Scherzi a parte e Zelig. Oltre ad integrare una violazione dei propri diritti di proprietà intellettuale (diritto d’autore e marchio), Mediaset sottolineava come la pubblicazione non autorizzata dei suoi programmi comportasse anche la commissione di atti di concorrenza sleale, e ne chiedeva di conseguenza la rimozione e la disabilitazione all’accesso, nonché il risarcimento dei danni.
Il Tribunale di Roma, in sede di primo giudizio, nel 2016 accertava la violazione da parte di Break Media dei diritti d’autore di RTI, condannando la società americana al risarcimento dei danni, liquidati nella somma di 115 mila euro. In sede di appello, la piattaforma USA consolidava la sua difesa, affermando di non essere responsabile per quanto messo online, per il semplice fatto di essere un “hosting provider”, ovvero un soggetto informatico che si limita a mettere a disposizione di terzi il proprio spazio in rete, senza in nessun modo poter controllarne il contenuto, invocando di conseguenza il regime di esonero della responsabilità scaturente dall’art. 14 della Direttiva 31/2000/CE (recepita nell’art. 16 del d.lgs.70/2003).
La difesa, però, non faceva breccia nei faldoni della Corte d’Appello, che riconosceva piuttosto la Break Media come vero e proprio “content provider”, cosa che la rendeva responsabile di quanto pubblicato sul proprio portale. Secondo i giudici romani, l’attività svolta da Break Media non era limitata alla sola fornitura in modo neutro, automatico e meramente tecnico di un supporto per consentire agli utenti di accedere alla piattaforma digitale, ma incideva significativamente nella gestione dei contenuti e presupponeva la loro conoscenza e valutazione nel momento in cui selezionava i contenuti audio e video per collegarli alla pubblicità in base ai dati di maggior o minor visione, con l’aiuto anche di un editorial team. In particolare, tale attività è parsa ai giudici di seconda istanza volontariamente finalizzata a concorrere o cooperare col terzo nell’illecito e non assimilabile a un mero posizionamento dei contenuti.
Si giungeva così, nel 2017, allo scrutinio del Palazzaccio di piazza Cavour. I togati della Cassazione dovevano sciogliere la vexata questio se la piattaforma americana fosse da considerarsi come un hosting passivo, e quindi non responsabile di nessuna elaborazione idonea a manipolare, alterare o incidere sui contenuti memorizzati, trasmessi e visualizzati (con la conseguenza esenzione da ogni colpa) oppure, di converso, essere pienamente coinvolta nel processo di elaborazione dei contenuti (non suoi) come lo è qualsiasi “hosting attivo”, e quindi pienamente sanzionabile.
Al centro del dibattito l’art. 16, comma 1, del d.lgs. 70 del 2003, recante attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa al commercio elettronico, atto che si occupa della responsabilità nell’attività di memorizzazione di informazioni (hosting). Secondo tale disposto, il sito non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto portale non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, esso si adoperi immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
Secondo la Corte d’Appello così come confermato dalla Cassazione, tale esimente non può applicarsi alla Break Media poiché, nel caso di specie, si può benissimo inquadrare l’attività del sito a stelle e strisce come “hosting provider attivo” (e quindi sottratto al regime privilegiato), che si configura quando sia ravvisabile una chiara condotta di azione nella manipolazione del contenuto pubblicato. Infatti, secondo gli Ermellini, le attività prestate dalla Break Media sono state chiaramente “partecipative”, come ad esempio la cernita dei contenuti audiovideo a fini pubblicitari, lo sviluppo di un sistema operativo incompatibile con la figura dell’hosting provider passivo e la creazione e la distribuzione di contenuti di intrattenimento digitali collegati alla selezione dei contenuti e collocati nella home page.
Del resto, come la stessa Cassazione sottolinea, va rammentato che i servizi prestati online e, segnatamente, l’attività di hosting hanno subito nel corso degli ultimi anni un’evoluzione radicale.
La cernita ed il riordino dei contenuti, lungi dall’essere assorbiti dalla nozione di mera memorizzazione, sono invece oggigiorno il cuore dell’attività economica di un hosting provider. Grazie a sistemi di data mining (l’insieme di tecniche e metodologie che hanno per oggetto l’estrazione di informazioni utili da grandi quantità di dati attraverso metodi automatici o semiautomatici e il loro utilizzo scientifico, aziendale, industriale o operativo) e di elaborazione massiva di big data, questi prestatori di servizi sono in grado di trarre enormi guadagni dalla loro attività di hosting. Attraverso complessi sistemi di profilazione dell’utenza, gli operatori hanno la capacità di intercettare le preferenze dell’utenza, in modo da variare l’offerta dei contenuti a seconda dei destinatari, e di aumentare in tal modo a dismisura le visualizzazioni, di fatto contribuendo, in modo causalmente determinante, alla diffusione o meno di prodotti illeciti.