L’accordo 5 Stelle-Lega potrebbe costare più di 100 miliardi. Il ruolo centrale di Matterella sul nodo coperture
di Alessandro Alongi
Battute finali per la nascita del 65° governo della storia repubblicana, il primo che prende forma intorno ad un «contratto di governo», nato dalla volontà delle due maggiori forze politiche del Paese dopo un tira e molla lungo più di due mesi.
Dopo l’esito positivo sull’accordo di governo, licenziato favorevolmente dai militanti delle due parti lo scorso fine settimana, al MoVimento 5 Stelle e alla Lega – oltre a dover indicare il nome del premier al capo dello Stato nelle prossime ore – toccherà adesso tradurre in realtà quelle che sembrano, al momento, 57 pagine di buoni propositi, più adatte forse ad una campagna elettorale che ad una vera e propria «lista della spesa» di governo.
Gli esperti sono già al lavoro per analizzare la sostenibilità finanziaria del piano proposto, in modo da quantificare le occorrenze economiche richieste dalle numerose misure contenute nel libro mastro della nuovo esecutivo. Ad un primo resoconto gli interventi ipotizzati potrebbero costare sino a 125 miliardi, a fronte di esigui risparmi di spesa pari a 500 milioni. È quanto contenuto nell’analisi curata dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani, diretto da Carlo Cottarelli, uno che di spesa pubblica se ne intende, ma nonostante questo bollata da subito come «conti della serva» da Luigi Di Maio, capo politico di pentastellati. Non dello stesso pensiero Sergio Mattarella che, in queste ore, e calcolatrice alla mano, sta passando al vaglio con attenzione il contenuto di quello che da più parti è stato da subito rinominato il «libro dei sogni» (o «degli incubi», a sentire gli esponenti PD).
Le voci che peseranno di più nel prossimo bilancio pubblico, secondo queste proiezioni, saranno proprio i due cavalli di battaglia di Lega e 5 Stelle, la Flat Tax (ultimamente trasformata in «dual tax», stante la presenza di due sole aliquote al 15% e 20%, costo valutato in 50 miliardi di euro) e il reddito di cittadinanza (con un impegno di 17 miliardi). Medaglia di bronzo per l’intervento di sterilizzazione dell’IVA, unica spesa certa e che influisce per 12,5 miliardi.
A seguire, un rivolo di interventi minori ma comunque significati sulla tenuta dei conti: come ad esempio l’eliminazione delle vecchie accise ancora presenti sul prezzo finale della benzina (balzelli dovuti per la guerra di Etiopia, crisi di Suez, disastro del Vajont, alluvione di Firenze e terremoto del Belice), la cui soppressione farà registrare meno entrate per 6 miliardi, così come le spese relative al sostegno alle famiglie, un ventaglio di interventi che va dai contributi per le baby sitter agli asilo nido, voci che potrebbero incidere sino a 17 miliardi, senza contare altri 8 miliardi che potrebbero derivare dalla riforma delle pensioni.
Proprio il riordino della previdenza sociale è l’aspetto che stuzzica maggiormente gli appetiti di Matteo Salvini, da sempre deciso ad abolire la legge Fornero. Riportare le lancette dell’orologio al 2011 costerebbe 5 miliardi (ma le stime dell’INPS toccano la cifra di 14-18 miliardi). Il sogno leghista è far rivivere i vecchi criteri ante riforma, ovvero il rispristino della quota 100 (somma dell’età anagrafica più quella contributiva) necessaria per godersi il merito riposo lontani dal lavoro.
Il progetto è già stato criticato da più parti. Bankitalia, ad esempio, qualche settimana fa in occasione dell’audizione sul DEF, ha affermato che «la sostenibilità del debito pubblico italiano poggia in larga misura sulle riforme pensionistiche introdotte nell’arco degli ultimi decenni», un autentico «punto di forza della finanza pubblica italiana» che non va assolutamente smantellato. A dar man forte all’istituto di via Nazionale, le previsioni della Commissione europea secondo cui, già con le regole in vigore oggi, la spesa pensionistica italiana è determinata a salire arrivando ad incidere sino al 18% del PIL entro il 2040.
Dati questi numeri la situazione italiana preoccupa Bruxelles ma non solo. Anche Angela Merkel, madrina del contratto di governo «alla tedesca» e musa ispiratrice delle vicende tricolore, guarda con attenzione quanto accade a Roma, temendo un governo ostile alle politiche europeiste. E chissà se, proprio come il mugnaio di Potsdam, in caso di difficoltà Salvini e Di Maio troveranno un giudice a Berlino.