Nessuna decisione sul “carbon market” previsto dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi. Trump e gli Stati Uniti partecipano alla Conferenza, ma confermano l’idea di ritirarsi dagli accordi a novembre 2020. Decisioni sul clima rinviate quindi alla Cop 26, in programma a Glasgow tra un anno
“Una opportunità persa”. Questo il giudizio del Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres rispetto agli esiti della Conferenza sul clima conclusasi a Madrid nei giorni scorsi.
In effetti la tanto attesa Conferenze delle Parti n. 25 (o più semplicemente COP 25 ) non ha portato grandi risultati, nonostante si sia tentata una trattativa quasi ad oltranza.
Riavvolgiamo il nastro e cerchiamo di capire perché c’era tanta attesa per questa Conferenza.
Anzitutto dobbiamo ricordare che al centro della discussione della riunione di Madrid c’erano alcuni punti delicati, relativi all’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015 (Cop 21).
In particolare, i circa 190 Paesi partecipanti alla Conferenza si erano prefissati l’obiettivo di trovare una soluzione su uno dei punti più importanti e discussi dell’Accordo di Parigi sul clima ossia il meccanismo previsto dall’articolo 6. Il succo di questo articolo dell’accordo è che i Paesi che inquinano meno possono “cedere” la loro quota rimanente di gas serra a paesi che inquinano di più (cosiddetto carbon market), per permettere loro una transizione più facile senza compromettere il raggiungimento degli obiettivi generali.
L’altro elemento “forte” della Cop 25 riguarda la posizione degli Stati Uniti e del Presidente Trump in particolare. Gli Usa avevano infatti firmato l’accordo di Parigi del 2015, quando a guidare il Paese dalla bandiera a stelle e strisce c’era Barack Obama.
Nel gennaio 2017 arrivò però alla Casa Bianca il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, che, pochi mesi dopo (nel giugno 2017 per l’esattezza), comunicò, in occasione di una conferenza stampa tenuta nel Giardino delle rose della Casa Bianca, che gli Stati uniti sarebbero usciti dall’accordo di Parigi.
Premesse dunque importanti ed obiettivi ambiziosi attendevano i Paesi del mondo a Madrid. Ma, come si diceva, tutte le aspettative sono state tradite. Rispetto all’articolo 6 nessun accordo è stato raggiunto e nessun vincolo è stato previsto rispetto all’obbligo per i singoli Paesi di presentare piani per ridurre ulteriormente le proprie emissioni di gas serra e raggiungere quindi gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi nel 2015.
I più hanno puntato il dito contro il Presidente Trump, ma in realtà non sono stati solo gli Stati Uniti a non facilitare gli accordi.
Per ragioni diverse, infatti, anche il Brasile, l’Arabia Saudita, l’Australia, l’India, la Cina, il Sudafrica hanno frenato i negoziati.
I paesi più sviluppati, poi, non hanno dato garanzie sufficienti rispetto ai necessari finanziamenti di cui i Paesi più esposti agli impatti del cambiamento climatico necessitano per gestire la messa in sicurezza delle coste, nuove infrastrutture e il trasferimento di milioni di persone vivono nelle aree costiere a rischio.
Tutta colpa dei soliti paesi più sviluppati quindi se l’esito della Cop 25 è stato deludente?!
Sembrerebbe di no, perché anche i paesi meno sviluppati, in generale non amano le misure anti-inquinamento perché le considerano “pericolose” rispetto all’andamento della loro crescita economica.
Ovviamente, se vi fossero compensative da parte dei paesi più industrializzati e nei quali la transizione verso la sostenibilità è già stata avviata, il discorso sarebbe un po’ diverso.
Per tutti valgono però i dati e i cambiamenti climatici che si registrano da alcuni anni e che sono stati oggetto di un recente rapporto intitolato “The Lancet Countdown 2019: Tracking Progress on Health and Climate Change”, pubblicato sull’omonima, autorevole, rivista di scienze mediche e redatto da 120 esperti – climatologici, matematici, ingegneri, esperti di cibo, energia e trasporti, medici – di 35 istituzioni accademiche internazionali e agenzie delle Nazioni Unite di tutti i continenti.
È quindi sulla base di questi dati, sintetizzati di recente da Il Fatto Quotidiano che bisognerà ragionare nel prosieguo delle trattative, considerando anche che un passaggio chiave sarà il vertice fissato a Bonn nel giugno 2020 (conferenza preparatoria in vista della Cop 26), in occasione del quale si dovrebbe tornare ad affrontare il delicato argomento dell’articolo 6.
Ci sarà poi il summit Ue-Cina di settembre a Lipsia, in cui si toccheranno i temi della crisi climatica e della biodiversità e infine la Cop26, che sarà ospitata a Glasgow a dicembre 2020.
Nel mezzo, a novembre 2020, gli americani saranno chiamati alle urne e gli Stati Uniti dovrebbero uscire dagli accordi di Parigi 2015.
Molti appuntamenti importanti dunque, forse troppi, se si deve affrontare un’emergenza.