Tredici anni e otto milioni di voti persi: per il Pd è tempo di prendere o lasciare. Seguire il modello Corbyn o avventurarsi all’interno di un fronte repubblicano produrrà, comunque, un altro scossone all’interno del Nazareno
Contando la prima apparizione ibrida, gruppi Ds e Margherita uniti alla Camera e al Senato, l’esperienza storica del Pd – iniziata in quelle politiche 2006 che viddero la vittoria risicata di Roma Prodi – ha compiuto 13 anni. A qualche settimana dall’elezione di quello che sarà l’ottavo segretario del Pd, il principale partito della sinistra italiana, passato dai 14 milioni di voti del 2008 ai 6 milioni dello scorso 4 marzo è di fronte alla sua ennesima svolta storica.
Qualche dato politico chiarisce il tortuoso cammino dei democratici: da quando esiste, il Pd non ha potuto infatti mai tradurre in voti la vocazione maggioritaria che fu alla base della rottura della logica di coalizione. Né nel 2008 (Veltroni contro Berlusconi), né nel 2013 (Bersani contro Berlusconi) e né nel 2018 (Renzi contro tutti) il Pd ha vinto in modo netto una elezione politica. Ben otto milioni di voti in meno hanno decretato l’erosione di quella base elettorale che fu, un tempo, il centro dell’agenda politica del Paese.
L’area del centrosinistra è infatti ormai minoritaria nel dibattito politico quotidiano. L’ascesa del M5S prima e le divisioni dell’ex Ulivo poi hanno infatti frammentato l’area culturale della sinistra. La convivenza postcomunisti-cattolici, solo trent’anni fa agli opposti sotto le insegne di Pci e Dc, pur avendo sostanzialmente retto, ha prodotto inevitabilmente uno dei partiti di sinistra più centristi della tradizione europea, ultimo figlio ancora in vita della terza via blairiana e clintoniana ormai da un pezzo consegnata alla storia. La continua divisione del mondo a sinistra del Pd (La Sinistra-L’Arcobaleno del 2008, SeL e Rivoluzione Civile nel 2013 e LeU e Potere al Popolo nel 2018) vede, costantemente, un vecchio pezzo del fu Ulivo uscire fuori dal Pd ad ogni tornata mentre nel Pd la corrente ex-Margherita, che nel patto fondativo contava per un terzo, è ormai maggioranza dilagante al Nazareno. E dire che l’unica sinistra che regge a livello europeo pare essere quella che non disdegna il ritorno ad una tradizione socialisteggiante dura e pura, totalmente in contraddizione con il Pd-centrista degli ultimi anni.
Romano Prodi rimane, a tutt’oggi, l’unico candidato politico della sinistra ad aver vinto le elezioni. La prima volta, con l’Ulivo, la sinistra ex Pci, assente dal governo dal ’47, fu protagonista di una nuova pagina politica che per 5 anni (e quattro governi) segnò la storia del percorso politico nazionale. La seconda, nel 2006, la fragile coalizione dell’Unione sempre guidata da Prosi, uscita vincitrice alla Camera ma sconfitta al Senato per il famigerato Porcellum, si dissolse dopo poco più di un anno e mezzo. Da allora, pur presente al governo, il centro-sinistra non ha più “vinto” – seppur a seguito di vari fattori – nessuna delle elezioni politiche successive.
Nell’epoca dei populismi e dei sovranismi, infatti, il ritorno a proposte forti, di matrice socialista, appare l’unica risposta “urlata” efficace per replicare a tono a quelle forze che fanno della protesta, dell’antipolitica e dell’anti-establishment il proprio bacino elettorale. La forza tranquilla (Mitterrand&Gentiloni copyright) non tira più e se intende ancora sopravvivere ha urgentemente bisogno di proposte nuove e di rottura per quell’Italia che, per la prima volta dal 1946, si è risvegliata con i moderati in minoranza e in declino.
Da queste primarie del Pd, stando ai dati, uscirà un ex Ds segretario di un partito che ha per la sua gran parte perduto l’anima ex Pci-Pds-Ds. Che significa questo? Anzitutto che le primarie segneranno solo l’inizio dell’ennesima ricollocazione della sinistra italiana: anche se né Zingaretti, né Martina appaiono i nuovi Corbyn o i nuovi Tsipras tale passaggio produrrà, di fatto, il ritorno di metà della ex “ditta” nella cabina di comando del Nazareno. Con i fisiologici scossoni che tale situazione produrrà.
La discussione, un po’ stantia, sull’opportunità di presentarsi con o senza il simbolo Pd alle europee all’interno (o no) di un “fronte” anti-sovranista e repubblicano appare infatti una strada che, qualora intrapresa, richiederà degli sforzi immani di sintesi tra anime politiche differenti, già lacerate da anni di scissioni, liti e tradimenti. In questo caso, però, addio modello Labour. E l’implosione della fu Unione parla ancora chiaro.
In nessun altro Paese d’Europa un partito che ha subito la sua più grande sconfitta elettorale ha atteso un anno per cambiare leadership. La risposta sul perché di tanta attesa è tutta scritta tra le righe di questo interrogativo: il Pd ha davvero esaurito il proprio ruolo assieme alla sua vocazione maggioritaria oppure c’è ancora tempo e spazio per un rilancio? La sfida del primo segretario della storia d’Italia di partito di sinistra solo terzo nella classifica generale è tutta qui. Se a sinistra c’è futuro politico per il Pd lo vedremo a breve. Meno di quanto si possa pensare.