La recente scarcerazione, con regime di semilibertà per 4 anni, del boss Giovanni Brusca dopo 25 anni di reclusione ha suscitato molti sentimenti di sdegno e ribrezzo per il nostro sistema giudiziario e per l’impianto legislativo che tutto ciò ha consentito.
Bisogna, tuttavia, scindere i due piani: quello giuridico e quello politico-filosofico. È evidente, in questo secondo piano, che un uomo autore o mandante di oltre 150 omicidi, esecutore di stragi contro lo Stato e le sue istituzioni, colpevole di aver ucciso e sciolto nell’acido un bambino di 14 anni, sia meritevole di passare la sua vita in carcere, lontano dalla società cui potrebbe recare pericolo.
Sul piano giuridico le cose però non stanno così. E aggiungiamo: per fortuna. La legge, specie quella penale, non viene approvata né per Tizio né per Caio, non viene immaginata per un Giovanni Brusca o per un Mario Rossi. La legge è generale ed astratta ed è suscettibile di essere applicata a chiunque, tanto nelle sue accezioni di particolare severità quanto nelle sue formule premianti.
La legge sull’ordinamento penitenziano ( l. 354/75 ) è particolarmente severa per quanto attiene il regime di reclusione dei mafiosi. Il contestato art. 4-bis della predetta legge, che contiene anche il regime del c.d ergastolo ostativo, impedisce ad esempio la concessione di qualsivoglia beneficio o meccanismo premiale nei confronti dei condannati per alcuni reati, tra cui l’associazione mafiosa, che non manifestino alcuna forma di pentimento, collaborando con lo Stato.
La ratio della misura risiede proprio nella volontà di scardinare il vincolo associativo, di sangue e di onore, che è alla base del patto mafioso, attraverso la possibilità di assegnare benefici carcerari ai condannati che dimostrino una sincera volontà di sciogliersi da quel vincolo.
A comprendere l’importanza della collaborazione dei mafiosi, autentica e sincera, come strumento per entrare nelle logiche alla base del vincolo associativo e quindi per interromperne la catena erano anche Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, entrambi uccisi dalla mafia per mano, anche e non solo, di Giovanni Brusca.
Lo Stato non deve agire come la mafia. Deve dimostrare la sua superiorità morale, la sua capacità di credere nella Legge e di applicarne, fino in fondo, i principi. Racconta Pietro Grasso, ex giudice nel maxi processo ed ex presidente del Senato, che quando si trovò ad interrogare, dopo l’arresto, Totò Riina, il capo dei capi, la prima cosa che il giudice chiese a Riina fu se questo avesse bisogno dell’acqua.
È moralmente inaccettabile che un uomo come Brusca esca dal carcere dopo le atrocità che ha causato, dopo le sofferenze che ha cagionato e dopo le vite che ha spezzato. Ma è previsto dalla legge e, fintanto che la legge sarà questa, sarà anche giusto così. Perché cambiare la legge ad personam, nei confronti di uno o a causa di uno, finirebbe per deturpare secoli di evoluzione del nostro diritto penale ledendo la giustizia ed i suoi principi che per questo si amministra nei tribunali e non nelle piazze.
Credere autenticamente nella Legge e nel diritto significa accettare che Brusca esca dal carcere. Perché si comprende che non vi esce da impunto. Vi esce da colpevole, da delinquente, da vile e atroce assassino. Da uomo che ha scontato la sua pena ma che sarà sempre uno che ha perso la sua lotta con lo Stato.
Perché lo Stato e le sue Istituzioni hanno dimostrato di essere più forti della mafia e di Brusca che uccide Falcone negandogli la vita proprio nell’atto di libertà che è concessa a Brusca. In questa sottile differenza, fondamentale per uno Stato democratico, risiede la differenza tra la mafia e lo Stato, tra la vita e la morte, tra la viltà mascherata da onore e dall’onore. Nella libertà e non nella morte.