La consultazione del 17 aprile conferma che gli italiani sono sempre meno un popolo di votanti, e sempre più una nazione di tifosi
Com’era nelle previsioni – considerato lo stato di crisi in cui versa l’istituto del referendum abrogativo (dal 1999 a oggi, gli unici quesiti risultati validi sono stati quelli del 2011, quando però si votò anche di lunedì) – la consultazione di domenica 17 aprile non ha raggiunto il quorum. Nell’arco della giornata, si è recato ai seggi solo il 31,1% degli aventi diritto al voto, per un totale di circa 15 milioni di voti espressi, di cui una percentuale di oltre l’85% in favore del “Sì”.
Di diversa natura sono le cause che hanno portato al fallimento del referendum. In primo luogo, hanno indubbiamente pesato il carattere tecnico del quesito sottoposto agli elettori e l’approssimazione, a volte sfociata in casi di vera e propria disinformazione, con la quale i media hanno presentato la consultazione ai cittadini. Contrariamente a quanto riportato dalla quasi totalità delle testate giornalistiche, difatti, la votazione non aveva nulla a che vedere con l’attività delle cosiddette “trivelle”, concentrandosi invece sulla validità temporale delle concessioni riguardanti poco meno di 50 piattaforme che stanno attualmente estraendo idrocarburi in mare (entro le 12 miglia dalla costa). Un quesito, che per essere pienamente compreso avrebbe richiesto una serie di competenze non in possesso della grande maggioranza degli italiani, suscitando così reazioni di disinteresse per un argomento ritenuto oscuro o l’espressione di posizioni genericamente ambientaliste.
Ulteriore fattore ad aver svolto un ruolo rilevante per il mancato raggiungimento del quorum è stato l’uso strumentale dell’astensione da parte degli oppositori della consultazione. Già in altri referendum di epoca recente, si pensi a quelli del 2003 sui licenziamenti per giusta causa e del 2005 in ambito di procreazione assistita, coloro che contestavano l’abrogazione delle norme sottoposte al giudizio popolare avevano preferito puntare più sul fallimento della votazione piuttosto che su un’aperta campagna in sostegno del “No”. In questa circostanza, tuttavia, si è assistito all’assenza pressoché totale di voci pubbliche sostenitrici di una risposta negativa al quesito in esame. Sebbene il meccanismo del quorum sia previsto per i referendum abrogativi dall’articolo 75 della Costituzione, e dunque la scelta dell’astensione era stata ritenuta implicitamente legittima dall’Assemblea Costituente, un fenomeno di questo tipo rispecchia il precario stato di salute in cui versa la cultura delle Istituzioni in Italia, stante l’articolo 48 della Costituzione che definisce l’esercizio del voto un dovere civico.
Ma, più di ogni altra cosa, ha inciso la polarizzazione determinata dall’invito all’astensione rivolto in più occasioni dal premier Matteo Renzi, fortemente convinto della dannosità del referendum per l’economia italiana. La posizione espressa dal Presidente del Consiglio, che trova precedenti in casi illustri come quelli di Silvio Berlusconi e Bettino Craxi, ha infatti determinato negli ultimi giorni della campagna uno stravolgimento del significato del referendum, trasformato dagli oppositori di Renzi in un tentativo (agevolato, nella loro visione, dall’emergere della vicenda “Tempa Rossa”) di infliggere al premier una prima sconfitta in attesa della “resa dei conti” rappresentata dalle elezioni Comunali di giugno e, soprattutto, dal referendum costituzionale previsto per il mese di ottobre. Tentativo evidentemente fallito nei risultati, ma che potrebbe segnare la nascita di un primo nucleo di coalizione “antirenziana” potenzialmente dannosa per i disegni politici del Presidente del Consiglio.
In conclusione, a prescindere dalle consuete schermaglie dialettiche tra vincitori che si attribuiscono meriti per l’esito a loro favorevole e sconfitti che rivendicano un risultato superiore alle loro reali attese, la consultazione del 17 aprile ha reso nitida l’immagine di una cittadinanza italiana con scarsa maturità democratica e ancora divisa in opposte tifoserie, segnate da una condizione di sostanziale incomunicabilità.