L’ambientazione, la fotografia, il colore delle scene, tutto sembra riecheggiare, vagamente, un universo orwelliano dove simboli e significati si confondono dietro l’alterazione del reale. La Propaganda, appunto.
I due impiegati del catasto, Colapesce e Dimartino, guardano allo schermo il punto stampa del candidato Carlo Carloni, poi si girano verso un attonito collega – Fabrizio – che non crede a ciò che sta vedendo. Allo schermo c’è il suo alter ego: Carlo è Fabrizio, Fabrizio è Carlo. Toglie gli occhiali per capire se stia sognando, ma è fin troppo desto: sono la stessa persona.
Questo passaggio del videoclip di Propaganda – traccia 6 di ‘Caos’, l’ultimo album di Fabri Fibra – mi ha riportato all’ultima pagina della fattoria degli animali: “Le creature fuori guardarono dall’uomo al maiale e di nuovo dal maiale all’uomo, ma era ormai impossibile distinguere l’uno dall’altro”.
Allo stesso modo, Fabrizio è diventato come i “politici corrotti” cantati nella seconda strofa del brano. Proprio nella seconda strofa, infatti, c’è la profezia che si autoavvera nella scena dello schermo: “Finalmente qualcuno che mi sembra onesto in mezzo a tanti corrotti, qualcuno che mi assomiglia, che in TV parla la mia lingua”.
La personalizzazione politica portata allo stremo
La politica, negli anni, si è personalizzata: sempre più arroccata dietro i leader, sempre meno ancorata agli apparati ideologici – scomparsi – dei partiti. La personalizzazione della politica è diventata, negli anni, comunicazione di prossimità: accorciare le distanze con il pubblico, con l’elettorato, per creare una connessione emotiva potenzialmente tramutabile in consenso, quindi in voti. Il politico “al di sopra” degli anni 50-60-70-80-90, lontano ed austero, è diventato nell’ultimo ventennio un politico “come noi”.
Il politico è normale, ha dei limiti, ha i nostri gusti, mangia la nutella e frequenta i nostri stessi luoghi (quelli reali, e quelli dei social). È il politico che – canta Fibra – “Come me non se la tira”. Insomma: è l’ognuno vale uno che erroneamente ci ha sedotti. È il populismo.
C’è un fiume di letteratura scientifica sui limiti del populismo. Fibra, senza scomodare autori come Canovan, Mery, Surel, ce lo fa capire attraverso la storia del protagonista della canzone che, da una strofa all’altra, non vede cessare la sua frustrazione nonostante lo scorrere degli anni e l’avvicendarsi dei governi.
Così come non passa la sua fascinazione per la Propaganda, e quindi quel ricascarci ogni volta con tutte le scarpe: “Accendo la tele, un politico parla, sembra interessante, ascoltiamolo un po’. Fa mille promesse, la gente lo guarda, sicuro alle prossime lo voterò”. Quel politico, come noi – anzi, è proprio noi – rivela tutta la sua inconsistenza una volta entrato nella camera dei bottoni del potere: “Sono passati gli anni, ma è tutto uguale a prima”.
Gli ultimi frame sono una scena da Truman Show: Fabrizio guarda sé stesso uscire di casa, direzione lavoro, come ogni giorno, come ogni anno, come ogni stagione politica. Tutto sempre uguale, dove nulla cambia se non i governi.
Una piccola riflessione
Siamo dunque destinati a morire così? No, o almeno mi piace pensarlo. Io che ho fatto della comunicazione politica una passione ed un lavoro, cerco sempre di difenderla da chi la demonizza aprioristicamente. Anzitutto, mi ripeto un concetto: la comunicazione è un mezzo, viene prima la politica, e questa deve essere nobile, o quantomeno giusta, il più possibile.
Poi cerco conforto in un passaggio di un libro Edward L. Bernays dal titolo – sorpresa – ‘Propaganda’. Eccola: “Ovviamente qualcuno potrebbe obiettare che la propaganda tenderà a suicidarsi quando la gente avrà sempre più chiari i suoi meccanismi. Secondo me non andrà così. L’unica propaganda che si indebolirà via via che il mondo diverrà più sofisticato e intelligente sarà quella menzognera o antisociale”.