La debolezza delle alleanze post-elettorali potrebbe provocare un cambiamento di scenario, soprattutto dopo le elezioni europee. L’analisi di Luca Tentoni sullo scenario politico possibile del futuro
di Luca Tentoni
Il destino del Pd e, più in generale, delle attuali opposizioni parlamentari si decide da qui a fine giugno, nei cinque mesi durante i quali si rinnoveranno l’Europarlamento, alcuni consigli regionali (Abruzzo, Sardegna, Piemonte, Basilicata; Emilia-Romagna e Calabria voteranno a fine 2019) e molti consigli comunali. I primi risultati – ferma restando la specificità della regione nella quale si vota e la strutturazione dell’offerta elettorale, soprattutto a sinistra – arriveranno già nelle prossime ore dall’Abruzzo. Si tratta di test indicativi solo se considerati nel loro complesso, a consuntivo.
Detto ciò, è molto probabile che a fine maggio (e ancor più dopo le comunali) avremo un quadro politico diverso da quello del 4 marzo 2018: tendenzialmente più favorevole alla Lega e meno a FI e (forse) ai Cinquestelle. Il problema delle opposizioni “in crisi”, che si pose nel 1997-’98 per il centrodestra di Berlusconi e nel 2002-’03 e nel 2009-’10 per il centrosinistra, venne superato perché quando si verificarono problemi ci fu anche il tempo di risolverli (cosa che non fu possibile al centrodestra del ’94 e al centrosinistra del 2008, vincitori delle elezioni ma presto entrati in un tunnel senza uscita).
Le legislature “lunghe” (1996-2001, 2001-2006, 2008-2013, così come la 2013-2018, durante la quale una Lega in crisi ebbe tempo e modo per rilanciarsi raggiungendo nel 2018 il maggior risultato della sua storia) sono funzionali per favorire alcuni processi politici: 1) mettono alla prova il governo in carica, il quale non può scaricare i suoi eventuali insuccessi sui predecessori e non può sostenere di non aver avuto abbastanza tempo per realizzare il proprio programma; 2) pongono in discussione le modalità organizzative, comunicative ma soprattutto di posizionamento ideologico e sociale delle opposizioni, costrette a “reinventarsi” e a riconnettersi col sentire comune (che spesso ha fatto perdere loro le elezioni precedenti); 3) delineano un ciclo politico, definendo di fronte all’opinione pubblica dei ruoli ben netti sia dei partiti di governo (e della loro offerta) sia di quelli di opposizione.
Elezioni anticipate a poca distanza (1-2 anni) dalle precedenti, invece, non soddisfano alcuna delle tre condizioni date: i partiti del governo uscente possono essere travolti (se il ciclo economico-elettorale è avverso, per esempio) o premiati oltre misura perché avrebbero potuto compiere il proprio programma ma “gli è stato impedito” (da chi e da cosa non importa: dipende dalle circostanze, in un misto fra realtà e fantasia); le opposizioni non hanno tempo per ridefinirsi, riposizionarsi, finendo per riproporsi come identiche a se stesse (sperando, cioè, che il governo uscente sia stato tanto disastroso da spingere gli elettori a premiare gli oppositori solo per pura disperazione o mancanza di alternativa). La fine anticipata della legislatura, oggi, è un’ipotesi da non scartare.
La legge di bilancio per il 2020 potrebbe rivelarsi dolorosa, tanto quanto il riequilibrio di forze post-europee fra i partiti che hanno firmato il “contratto” di governo. Se oggi Salvini e Di Maio giocano alla pari (talvolta, però, il leader leghista sembra il vero capo dell’Esecutivo), cosa accadrebbe di fronte ad una travolgente avanzata leghista (8-10-12% in più rispetto al 2018) e ad una sostanziale stabilità (se non ad un regresso più o meno marcato) delle liste pentastellate? Questioni come la Tav o la “devoluzione” al lombardo-veneto sarebbero affrontate come in queste settimane, oppure il contraente del Carroccio potrebbe avere più carte per vincere la partita? E se questo squilibrio, già ora mal sopportato da settori dei Cinquestelle, divenisse insostenibile? Oppure, se il casus belli per sfasciare tutto fosse già pronto nel cassetto di uno o di entrambi i vicepresidenti del Consiglio? In quel caso, è facile ritenere che si andrebbe di corsa al voto – nonostante le resistenze di Mattarella, che però poco potrebbero, stavolta, a meno di eventi straordinari oggi non del tutto prevedibili – e che sarebbe il centrodestra a compiere quel minimo progresso di consensi necessario per permettere all’ex CDL di governare da sola.
Con Salvini premier, il M5S tornerebbe – come nel 2013-’18 – la forza di opposizione capace di scatenare la più robusta e incessante campagna politica e mediatica contro l’Esecutivo. Le forze che oggi cooperano ed evitano (salvo rari ballon d’essai) di scambiarsi contumelie sui social network e in televisione, spiegherebbero la loro enorme e collaudata “potenza di fuoco” l’una contro l’altra. In questo contesto, quale ruolo potrebbe avere il Pd? Il vaso di coccio, come avvenne al Psi dei primi anni ’70, schiacciato fra Dc e Pci? Il problema non si pone per Forza Italia, che finirebbe per ottenere qualche fruttuoso posto in Consiglio dei ministri, dunque l’unica opposizione fra le attuali sarebbe quella del partito che ancora oggi non ha un segretario (le primarie si terranno il 3 marzo).
Alcuni interrogativi, come quelli di Antonio Floridia (Un partito sbagliato, ed. Castelvecchi), dovrebbero trovare risposte esaurienti ed efficaci in brevissimo tempo. Il Pd, che per un anno dopo il voto delle politiche ha atteso Godot, può oggi improvvisamente riscattarsi e rinascere come la Fenice? Il processo di elaborazione politica, di revisione della forma partito, di interazione con le classi sociali e i bisogni di chi ha abbandonato il Pd fra il 2009 e il 2018 sono tutti elementi che richiedono tempo (ci sono illustri precedenti: nel 2002 Ds e Margherita erano in una situazione che fece dire a Nanni Moretti, in una manifestazione pubblica, che “con questi dirigenti non vinceremo mai”). L’unico, grande interrogativo che oggi il Pd dovrebbe porsi non è chi vincerà le primarie, ma se è pronto un progetto per l’immediato futuro, in caso di elezioni anticipate, o se si spera che questa legislatura duri il più possibile in attesa che il partito si rimetta faticosamente in moto.