L’epiteto è ormai stato coniato e lo identifica con una sorta di antonomasia: Enrico Michetti, il candidato del centrodestra alle prossime elezioni comunali di Roma, è il “tribuno” per eccellenza. Finora il suo balcone è stato l’etere, la sua piazza un’emittente radiofonica: novità assoluta, visto che dai tempi di Felice Cavallotti, il “bardo della democrazia”, e di Gabriele d’Annunzio, il Vate che per primo nelle “radiose giornate di maggio” sperimentò i poteri seduttivi della parola comiziante sulle adunate oceaniche, l’oratore è – prima ancora che voce – occhi, mimica facciale e prossemica.
Attendiamo al varco della scena Michetti, quando, nelle prossime apparizioni televisive, sapremo cogliere la sua efficacia nel muovere il corpo nello spazio visivo: elemento, questo, fondamentale per l’oratore carismatico che cerca la sintonia dell’uditorio. Tuttavia, i suffragi bastano e avanzano per riconoscere al candidato scelto da Giorgia Meloni talenti che gli avversari – facile prevederlo – bolleranno come “magniloquenti” o “demagogici”.
L’impressione è che se insisteranno sulla sprezzante liquidazione delle qualità retoriche di Michetti potranno suscitare l’approvazione intellettuale di qualche censore della propaganda politica senza scalfire il prevedibile consenso che la sua arte dialettica saprà accendere presso l’elettorato popolare.
Gli interventi alla radio di Michetti mostrano, in effetti, un dicitore a suo agio nell’esercizio del “parlar chiaro”: niente subordinate, periodi semplici e paratattici, che tendono all’enfasi e all’accumulazione appassionata dei concetti. Rispondendo a un ascoltatore che recrimina sulle conseguenze negative della didattica a distanza, l’aspirante sindaco approva e rilancia, chiamando per nome l’interlocutore allo scopo di conquistarne complicità e sintonia: “gli studenti li devi chiamare per nome, li devi leggere negli occhi, li devi fare intervenire tu, li devi stimolare tu, li devi sbloccare tu!”.
La successione delle parole amplifica l’intensità del contenuto grazie alla climax ascendente. Di questa prassi Michetti fa un uso ossessivo: enumerando i danni della classe politica calabrese, coinvolta negli scandali della sanità locale, parla di “inconcludenza, insipienza, incapacità totale”. I politici – insiste – “vogliono stare lì, senza avere alcuna capacità, alcuna competenza, alcuna idea, alcuna prospettiva per il Paese, niente!”: essi esercitano il potere “con una sufficienza, una superficialità, con un’inconcludenza che è disarmante”.
La gradazione enfatica lievita sempre più per suscitare l’indignazione, secondo un canone tipico della retorica classica. Il tasso alcolico delle parole di Michetti non si misura però tanto nella veemenza dei toni, che in fondo – salvo punte di concitato slancio emotivo – rimangono sorvegliati. Su questo versante, la foga tribunizia è temperata dall’altra componente della sua personalità: l’autorevolezza dell’esperto, l’equilibrio del conoscitore dei meccanismi amministrativi, la concretezza del Mr. Wolf risolvi problemi, come l’ha ribattezzato il suo sponsor.
Ciò non toglie che Michetti non si faccia scrupolo di entrare nelle acque territoriali dell’agone polemico, come si vede dalle intemerate contro un Parlamento “inesistente, dove non c’è uno che dica qualcosa di sensato” e, ancor più, dal ricorso teatrale alle allocuzioni esacerbate: “Signori, siamo governati da degli impostori!”. L’officina del tribuno mostra in questi casi gli arnesi del mestiere, tra spruzzate di populismo sentimentale (“il popolo non si sente tutelato”) e j’accuse contro la casta (“se non hai niente da fare, vieni a fare politica”).
Chiamando all’unità di intenti il proprio popolo di scontenti e déraciné in cerca di rappresentanza, Michetti è abilissimo nel dividere il campo, non solo politicamente ma, per così dire, antropologicamente. Noi vs loro: da una parte i cittadini schiacciati dagli ingranaggi del potere e umiliati dalle ingiustizie, dall’altra la classe politica di “lorsignori”, sordi alle esigenze delle masse abbandonate a sé stesse, chiusi nei propri privilegi.
A dar forza alla contrapposizione, affiora poi un’altra arma seducente. Spiegando la Costituzione con le parole dei Padri Costituenti in un volume di imminente pubblicazione ad opera di Radio Radio (che ne promette una divulgazione gratuita in formato digitale), Michetti confeziona infatti un altro classico dell’oratoria civile: la laudatio temporis acti, il rimpianto del passato. Dietro la grandezza della nostra Costituzione “c’era quest’educazione, questo stile, questo amore per quello che si stava facendo e non per la propria carriera”: un tempo “al centro c’era la Patria, c’era il rispetto delle istituzioni, c’era il lavoro”. Dello splendore dei decenni precedenti non è rimasta neppure un’eco lontana: la desolazione del presente richiede l’intervento di uomini capaci di riportare l’Italia e la sua capitale ai fasti del passato (non a caso, su questo tasto battono le prime interviste, appena ricevuta l’investitura ufficiale).
Nel recupero dei grandi di ieri, Michetti gioca la carta egemonica imbarcando nel suo pantheon tutto l’arco costituzionale, da Calamandrei a Moro e Fanfani, passando per Togliatti: quelli sì che erano grandi statisti… Anche da queste cooptazioni super partes appare evidente che il candidato civico del centro-destra giocherà a tutto campo, rifiutando camicie di forza ideologiche o appartenenze identitarie. La sua campagna elettorale si baserà, prima ancora che sulle idee, sul linguaggio, alla ricerca di quel nesso “osmotico” (sono sue parole) che costituisce, nella sua visione della politica, l’elemento chiave del rapporto tra governati e governanti.
Per vincere, Michetti userà un lessico diretto ma non improvvisato: finora questo è stato l’ingrediente del suo successo mediatico, arricchito da risonanze metaforiche (occorre “irrorare i canali” e alimentare “il flusso della conoscenza”), forme studiate di condivisione verbale (così si spiega il continuo ricorso al “tu” impersonale), similitudini iperboliche (“I ristoratori sono gli operai di un tempo, sono dei poveri disgraziati”), immagini incendiarie di facile presa, che balenano apocalittiche jacquerie (“i ristoratori dovrebbero scatenare l’inferno). La chiamata alle armi matura così attraverso la sentenziosità populistica (“Ci sono coloro che si ergevano a rappresentanti del popolo. Oggi abbiamo scoperto che la cosa più importante per costoro è la poltrona”) e la reprimenda, dal sapore carducciano, contro il malcostume dilagante (“Percepisco il malumore che sale, sale sempre di più”).
In tal modo, Michetti può rivolgersi a una platea trasversale, che egli richiama secondo stilemi occhieggianti alla grammatica marxista (Michetti parla spesso di “meno abbienti” e di ceti sofferenti) senza mai scivolare però sulle contrapposizioni di classe, come si vede dagli abbondanti residui della terminologia mazziniana invocante il “popolo” e da quelli di più schietta matrice qualunquista (affiora non di rado, tra i suoi discorsi, il vocabolo rivelatore “gente”).