Nuovo grattacapo per il Capo della Polizia che, per mezzo delle moderne tecniche di riconoscimento facciale, avrebbe voluto sorvegliare piazze, stadi e discoteche alla ricerca di brutti ceffi.
Il marchingegno, denominato “Sari Real Time”, consiste in una tecnologia (non ancora operativa) che consente, attraverso una serie di telecamere installate in una determinata area geografica, di analizzare in tempo reale i volti dei soggetti ripresi e scoprire se tra di essi si nascondono tipi sospetti. Tale innovazione, appena comunicata preventivamente all’Autorità privacy, ha fatto saltare dalla sedia il Garante, che ha giudicato troppo audace tale invenzione.
L’authorities guidata da Pasquale Stanzione, infatti, ha negato il proprio parere favorevole a tale nuovo strumento: secondo il Garante tale sistema, oltre ad essere privo di una base giuridica che legittimi il trattamento automatizzato dei dati biometrici per il riconoscimento facciale a fini di sicurezza, realizzerebbe una forma di sorveglianza di massa.
Sari, infatti, è in grado di analizzare migliaia di volti e confrontarli con una banca dati predefinita – denominata “watch-list” – che può contenere fino a 10.000 volti. Qualora, attraverso un algoritmo di riconoscimento facciale, venga riscontrata una corrispondenza tra un volto presente nella watch-list ed un volto ripreso da una delle telecamere, il sistema è in grado di generare un alert che richiama l’attenzione degli operatori delle forze di Polizia. Il sistema, progettato e sviluppato come soluzione mobile, può essere installato direttamente presso il luogo ove sorge l’esigenza di disporre di una tecnologia di riconoscimento facciale per coadiuvare gli agenti di polizia nella gestione dell’ordine e della sicurezza pubblica, o in relazione a specifiche esigenze di Polizia Giudiziaria. Sari consente, inoltre, di registrare le immagini riprese dalle telecamere, svolgendo una funzione di videosorveglianza.
La situazione di Sari ha richiamato subito alla mente degli addetti ai lavori quanto realizzato negli Stati Uniti appena lo scorso anno: nel febbraio 2020, infatti, ha fatto discutere la notizia, rivelata dal New York Times, di una super applicazione web in dotazione alla polizia americana capace di risalire – a partire da un semplice frammento di immagine o video – all’identità di una persona. Grazie all’uso di Clearview (questo il nome dell’applicazione) l’FBI e diverse polizie locali avrebbero raggiunto importanti risultati nella lotta alla criminalità, riuscendo ad individuare loschi personaggi che, in difetto di tale tecnologia, l’avrebbero fatta franca.
L’indiscrezione ha destato, però, vive preoccupazioni, dando il via all’annoso dilemma, ovvero se tra la tutela alla riservatezza dell’identità (anche digitale) della persona e l’esigenza di contrastare efficacemente il crimine, il primo elemento sia preponderante sul secondo o viceversa.
La tecnologia utilizzata da Clearview è semplice quanto diabolica: basta caricare una foto o alcuni secondi di un videoe, a partire anche da una piccola porzione di viso, la piattaforma è capace di ricercare in rete l’identità del soggetto, pescando tra i profili social o le notizie (corredate di foto) nascosti nei meandri del web.
Accanto a tali nobili usi, le principali preoccupazioni – in America come in Italia – sono legate soprattutto alla facilità con la quale – in un futuro non tanto remoto – sarà possibile scovare le identità di tutti, semplicemente scattando una foto per strada e dandola in pasto all’applicazione (che si chiami Clearview o Sari poco cambia). In pratica, sarà come camminare con un cartello attaccato al collo contenente tutti le nostre informazioni personali. Chiunque non abbia posto restrizioni alla privacy su Facebook, Twitter o Instagram – o mangi semplicemente un gelato nella piazza del paese – sappia che, con molta probabilità, la sua identità è già a disposizione degli spioni informatici.