Alla sesta chiama, dopo una settimana di sterili e isteriche trattative i grandi elettori lanciano un timido segnala che sa di appello disperato: “presidente Mattarella, resti lei!”. A chiederlo sono 336 votanti che, al netto dei 445 astenuti, non arrivano alla soglia di 505 voti necessari per chiudere la partita sul Colle. Così, come al Monopoli, si torna al via.
Con la differenza che mentre fuori Montecitorio il clima quasi primaverile alimenta un pò di sano narcisismo tra la stragrande maggioranza dei grandi elettori, sconosciuti ai più, tutti presi dal farsi ritrarre dalle telecamere, nel Paese reale ci si continua ad interrogare sul reale senso delle quarantene che bloccano mezza Italia a casa facendo crollare a picco i dati dell’economia.
Si torna alla classica dicotomia, il Palazzo, autoreferenziale, che fa appello al senso di responsabilità salvo non riuscire in una settimana a trovare la quadra sulla più alta carica dello Stato che, diciamolo in Italia conta fino ad un certo punto, e il popolo alle prese con le conseguenze dell’emergenza sanitaria che blocca gli ospedali, le scuole e non dà tregua alle imprese, soprattutto quelle piccole realtà che rappresentano il cuore pulsante del Paese.
Ma torniamo alla partita per il Colle. Continuare a definire “coalizione” il centrodestra a questo punto è ufficialmente un esercizio di disonestà intellettuale.
Salvini sembra passato dal Papeete alla Dolce Vita di via Veneto, dove è stato visto con Mario Draghi in un colloquio che, raccontano i ben informati, non deve certo aver disteso il clima. A riscaldare i toni nel centrodestra la nota di Forza Italia che, dopo giorni di inconcludenti trattative affidate (almeno formalmente) nelle mani del Capitano hanno registrato soltanto no e fallimenti, come la candidatura della presidente del Senato, Elisabetta Casellati, brutalmente gettata alle ortiche e affossata dai franchi tiratori.
Sullo sfondo a far rumore è il silenzio assordante di Giorgia Meloni, che mai come in questa partita sta testando le sue doti di stratega, finora peraltro mai palesate.
Aver lasciato a Berlusconi prima e a Salvini poi le chiavi del centrodestra ha avuto il risultato di veder logorare i colleghi-rivali, lasciandole da oggi completa mano libera, anche sull’ipotesi di trattare sulla candidatura di Draghi, sempre a patto, come dicono i duri di Colle Oppio, di tornare poi subito alle urne.
Sul fronte opposto Conte e Letta continuano a prendere caffè, dall’alba a notte fonda ma dal fondo della tazzina continuano ad emergere solo no o sterili appelli ad un nome condiviso.
Oggi si riparte. Convocazione anticipata alle 9.30, per far in fretta dicono da Montecitorio. Il presidente Mattarella non vuole saperne di disfare gli scatoloni, ma certo se tutti i leader gli cantassero una serenata sotto al Colle Sergio nazionale potrebbe commuoversi e tornare sui suoi passi.
A patto però che la sua rielezione non sia a mandato e che, se lo vorrà, rimarrà altri sette anni, con buona pace di Mario Draghi al quale, in fondo, il profumo del Colle era stato fatto assaporare per indolcire la pillola di Palazzo Chigi. A pensarci bene, pare gli abbia sussurrato qualche sodale: “caro Mario, chi te l’ha fatto fare?”.