Dopo un prostrante anno di pandemia, con tutte le conseguenze devastanti anche per la difficilissima situazione economico-sociale, e in seguito alla sospensione dei vincoli del Patto di Stabilità, si inizia finalmente a infrangere un tabù durato decenni, quello della revisione dei parametri del rapporto del 3% tra deficit e PIL e del 60% tra debito pubblico e prodotto interno lordo.
In Italia, verso la fine degli anni ’80 il refrain impossibile da criticare era “dobbiamo entrare in Europa” e solo gli osservatori e gli studiosi più lungimiranti facevano sommessamente notare che così come si andavano configurando, le regole per aderire e poi competere all’interno del club della moneta unica, sarebbero state un cappio al collo insopportabile per il Belpaese, abituato a ricorrere alle svalutazioni competitive della lira e al deficit-spending continuativo per mantenere un benessere diffuso e un solido consenso dei cittadini per il sistema dei partiti della Prima Repubblica.
Altri come Giuliano Amato, si definivano scettici sulla possibile riuscita del primo esperimento della storia in cui una Banca Centrale non si sarebbe dotata dei poteri di tutte le altre Banche Centrali del pianeta per espresso rifiuto della Germania e in sintesi di una moneta senza un vero e proprio Stato di riferimento.
Tuttavia, i teorici della necessità del “vincolo esterno” per rendere virtuosi i conti pubblici avevano iniziato a demolire le fondamenta del sistema fin dalla controversa separazione tra Bankitalia e Ministero del Tesoro, decisa nel 1981 e incredibilmente attuata bypassando il Parlamento, con una lettera scritta da Andreatta a Ciampi, in seguito al rialzo dei tassi interesse da parte di Paul Volcker, il governatore della Federal Reserve.
L’intento nobile di interrompere la crescita della spesa pubblica, che era iniziata dalla fine degli anni ’60, non cambiò le abitudini della classe politica e produsse soltanto un’irrefrenabile impennata del servizio degli interessi sul debito, che raddoppiò nel giro di un decennio, rendendo il Paese impreparato alla sfida dell’euro.
Infatti, l’inflazione abbattuta dalle politiche del governo Craxi, grazie al taglio della scala mobile, non poteva più coprire nominalmente la crescita del debito pubblico e, soprattutto, la fine dell’obbligo per la Banca d’Italia di comprare i titoli di Stato emessi dal Tesoro che restavano invenduti, rendeva impossibile monetizzare il debito e sterilizzarne gli interessi, che invece crebbero a dismisura per attirare gli investitori dei mercati finanziari.
I parametri capestro messi a punto da Berlino, ma corrispondenti perfettamente agli interessi tedeschi e sostanzialmente cuciti sugli abiti del marco, furono solo tendenzialmente ammorbiditi dalla diplomazia di Guido Carli e Gianni De Michelis ma i timori geopolitici di Mitterrand e Andreotti per la veloce riunificazione tedesca dopo la fine della Guerra Fredda, si avverarono inesorabilmente.
Oggi, dopo un decennio in cui si è passati dalla crisi dei subprimes a quella dell’attacco speculativo ai debiti sovrani che ha messo a dura prova il futuro dell’euro, fino allo scoppio della pandemia da covid-19, la sospensione del Trattato di Maastricht ha portato finalmente le cancellerie europee a riflettere seriamente su una riscrittura dei vincoli e dei parametri voluti da Berlino e da tutti supinamente accettati. Servirà una proposta credibile e condivisa e le trattative per puntare meno o non solo sulla stabilità ma soprattutto sulla crescita saranno molto complesse.
Tuttavia, la fine delle politiche di austerità non saranno accettate così facilmente dalla Germania perché ciò implicherebbero la riforma contestuale dello statuto della BCE, rendendola prestatore di ultima istanza e dovrebbero prevedere l’emissione di titoli di debito comune non provvisori come per il Recovery Plan, ma strutturali: quegli eurobond, proposti da Tremonti già nel 2003.
In conclusione, oggi di fronte alla crudezza e incontestabilità dei numeri, ossia della situazione economico finanziaria dell’Italia 30 anni fa che godeva di un outlook di AAA+ rispetto al BBB- attuale, con tutto quello che concerne a livello di produttività e competitività generale del sistema-Paese, anche i più convinti “eurolirici” cominciano ad ammettere l’assoluta necessità di un cambio di passo e di una riforma “sostenibile” dell’eurozona, che molti, malignamente o soltanto realisticamente, ritengono possa sopravvivere altrimenti, solo fino a quando converrà ha chi l’ha concepita in questi termini, ovvero alla Germania.