Presentato oggi in Senato il Rapporto CER 2/2017 “Crescita, conti pubblici e povertà”
di Stefano Bruni
“I principali indicatori congiunturali dell’economia italiana mostrano come la ripresa stia gradualmente consolidando il suo passo”: è quanto emerge dal Rapporto 2017 del Centro Europa Ricerche (CER) illustrato questa mattina al Senato della Repubblica.
Una buona notizia dietro la quale c’è una analisi molto dettagliata dei vari indicatori economico-sociali che vale la pena approfondire.
“La percezione che traspare dai dati è che il ciclo pare giovarsi di un miglior contesto internazionale, ma anche di una situazione domestica che comincia a manifestare più intensi segnali di miglioramento” si legge nel Rapporto.
Una “ripresina” dunque trainata soprattutto dalle economie emergenti, ma anche dagli Stati Uniti e dal Giappone che si prevede crescano quest’anno, rispettivamente del 2,2 e dell’1 per cento. Meno consistente invece la spinta che arriverebbe dall’Eurozona, dal Regno Unito e dalla Cina che sembrano confermare nel 2017 gli incrementi di prodotto registrati nel 2016.
Il clima economico positivo che si respira fuori dai confini del Bel Paese si riflette sugli indicatori interni, anzitutto su quelli relativi al settore industriale che dall’inizio del 2017 hanno mostrato un miglioramento sia in termini di ordinativi, cresciuti soprattutto a partire da gennaio 2017, che di fatturato.
Inoltre, l’indice di diffusione (che misura la presenza dei prodotti presso le famiglie) conferma che oltre la metà dei settori produttivi stanno registrando un’espansione su base annua che fa ben sperare per il futuro.
Positivi anche i dati relativi alle importazioni e soprattutto quelli delle esportazioni così come positivi sono gli indicatori relativi alla condizione delle famiglie.
Crescono infatti, rispetto all’ultimo trimestre del 2016, il reddito lordo e la spesa per consumi. Meno brillante invece, a causa della ripresa dell’inflazione, il dato relativo all’andamento del potere d’acquisto. Il ritorno dell’inflazione è comunque da considerare positivamente poiché una crescita moderata dei prezzi non frena la ripresa e permette alle imprese di incrementare i margini. Inoltre – si dice nel rapporto – “un tasso di inflazione positivo, ma moderato, non influisce in modo eccessivamente negativo sui consumi delle famiglie”.
Nonostante però il quadro di miglioramento delineato dagli indicatori citati, permangono problemi in relazione al tema del lavoro. Il tasso di disoccupazione rimane infatti ancora all’11,3 per cento a causa della pesante zavorra rappresentata dall’elevato numero di persone in cerca di occupazione (circa 2,9 milioni di unità a giugno scorso). Particolare attenzione poi va prestata ai risultati che emergono dal confronto tra l’andamento del tasso di disoccupazione e il livello delle retribuzioni. Negli Stati Uniti infatti, si evidenzia nel Rapporto, “il tasso di disoccupazione è sceso al di sotto dei valori pre-crisi, ma le retribuzioni, pur in recupero, conservano una dinamica pienamente compatibile con la stabilità dell’inflazione”. “In Europa – prosegue il rapporto – in tutti i maggiori paesi, Italia compresa, l’andamento salariale misurato attraverso il clup si colloca al di sotto dei valori descritti dalla curva di Phillips di lungo periodo”.
Probabilmente i dati e gli andamenti degli indicatori del mercato del lavoro, delle retribuzioni e dell’inflazione spiegano le performance degli indici di fiducia delle famiglie e delle imprese. Mentre le prime infatti esprimono un atteggiamento molto prudente, facendo registrare un andamento della fiducia in costante calo (a gennaio 2016 si era registrato un valore massimo rispetto agli anni precedenti , pari a 117,9, ma nel corso dei mesi è sceso di oltre 10 punti fino a 106,4 di giugno 2017), per le imprese, invece, la fiducia è in crescita. A gennaio 2016 l’indice segnava infatti un valore pari a 103,8, (uno dei valori più elevati degli ultimi anni), costante fino a cinque mesi fa quando si è assistito addirittura ad un graduale incremento (107,3 a giugno 2017).
Di tutti questi dati si dovrà certamente tener conto nella prossima Legge di Bilancio, ma lo si dovrà fare avendo ben chiaro che l’obiettivo principale da conseguire sarà l’eliminazione delle clausole di salvaguardia che prevedono l’aumento dell’IVA a partire dal prossimo anno.
Ed in effetti il Governo già nel DEF 2017 ha esplicitato la volontà di non far scattare l’aumento IVA preoccupandosi di anticipare in parte, nella cosiddetta manovrina, la sterilizzazione dei suoi effetti per il prossimo triennio.
L’operazione ha però un costo di 15 miliardi di euro per il prossimo anno che potrebbe essere coperto in parte ricorrendo alla cosiddetta flessibilità richiesta dall’Italia alla Commissione Europea (sei decimi di punti di Pil sull’indebitamento netto varrebbero circa 9 miliardi di euro). Sui 6 miliardi rimanenti, ci sono varie ipotesi in campo, ma nessuna certezza.
La cosa certa è che se dovesse scattare il prossimo anno l’aumento dell’iva previsto, l’impatto in termini di contrazione del Pil sarebbe evidente (circa 2,5 punti percentuali in meno nel periodo 2018 – 2020) e questo scenario renderebbe molto improbabile una ripresa consistente dell’economia italiana, perdendo peraltro il “traino” della positiva congiuntura internazionale.
E questo l’Italia non può permetterselo.