Il debito pubblico italiano, ovvero il convitato di pietra di ogni Governo italiano dal 1992 ad oggi, un macigno gigantesco sulle politiche di crescita e sviluppo, un vincolo che, nel contesto del vincolo esterno dei Trattati Ue, ha assunto proporzioni mastodontiche e altamente limitanti. Ma è stato sempre così? Non proprio.
Negli anni seguenti all’Unità, il Regno d’Italia dovette farsi carico dei debiti dei diversi Stati della Penisola che erano stati annessi e l’andamento del disavanzo pubblico subì alti e bassi fino all’aumento vertiginoso tra il 1915 e il 1918, negli anni della I Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, ogni teoria economica, almeno fino alla seconda metà del XX secolo, non prendeva nemmeno in considerazione che gli Stati potessero fallire a causa di politiche di bilancio deficitarie.
Durante l’era fascista, negli anni ‘20, nel cosiddetto periodo liberista del regime, l’ammontare del debito subì una contrazione costante, per poi prendere a salire con continuità negli anni ’30 a causa del cambio di indirizzo economico, che virò bruscamente sul dirigismo, con l’istituzione dell’IRI, a causa della progressiva costruzione dello stato sociale e, dal 1935 registrò una crescita ulteriore per i continui investimenti bellici e militari, prima nella guerra d’Etiopia, poi in quella di Spagna e infine con l’ingresso nel secondo conflitto mondiale.
Nel secondo dopoguerra, il rapporto debito/PIL, giunto al 118%, iniziò a scendere bruscamente per le politiche di bilancio prudenti e basate sullo stimolo dell’offerta aggregata, messe a punto dai governi centristi degli anni ’40 e ’50, sotto l’attenta regia di De Gasperi ed Einaudi, che portarono, anche grazie al Piano Marshall e a una congiuntura economica molto favorevole, al miracolo economico e a un periodo ininterrotto di grande sviluppo dalla seconda metà degli anni ’50 fino ai primi anni ’70.
Specialmente negli anni ’60, ogni macro-indicatore poneva l’Italia ai vertici delle performance dei Paesi industrializzati, dalla moneta, alla produzione al basso disavanzo. Questi risultati però, erano stati raggiunti contenendo le rivendicazioni sociali e in tempi così repentini, da creare un benessere diffuso e generalizzato ma squilibrato, che aveva reso possibile l’allargarsi della classe media ma anche di quella operaia che aveva sostenuto i costi maggiori della crescita economica. Ciò indusse gli esecutivi di centrosinistra, già dalla seconda metà degli anni ’60 ad aumentare la spesa pubblica, soprattutto previdenziale, per soddisfare le pressioni sindacali e le rivolte studentesche che stavano montando in tutto il Paese.
Negli anni ’70, con la fine degli accordi di Bretton Woods, decisi dall’Amministrazione Nixon, i tassi di interesse iniziarono man mano a salire mentre in Italia il movimento studentesco si era contaminato, era mutato ed era stato sostanzialmente soppiantato dai movimenti extraparlamentari e poi dal terrorismo nero e rosso. La situazione sempre più esplosiva dal punto di vista economico-sociale convinse la DC e i suoi alleati a politiche di bilancio ancora più espansive, optando per un regime consociativo in cui, tutti i maggiori partiti, compreso il PCI, votarono misure come l’istituzione delle baby pensioni, la scelta del regime previdenziale retributivo e la creazione del Sistema Sanitario Nazionale, che aumentarono considerevolmente la spesa pubblica.
Il debito però, dal 1969 al 1981 crebbe solo dal 40 al 61% circa, grazie a un’inflazione che con punte del 22%, ne copriva nominalmente la possibile esplosione e anche per l’obbligo da parte della Banca d’Italia di comprare i titoli di Stato invenduti sui mercati dal 1975 al 1981, così da monetizzare il debito e sterilizzare gli interessi.
Proprio nel 1981 però, con una semplice lettera tra Andreatta e Ciampi, fu decisa la separazione tra Bankitalia e Tesoro, che fece cadere l’obbligo del nostro Istituto centrale di intervenire come prestatore di ultima istanza nelle aste di vendita dei titoli. Questa decisione, unico caso tra le economie più sviluppate, lungi dall’indurre a politiche di contenimento e di taglio della spesa pubblica, ebbe effetti devastanti sulla crescita del nostro debito pubblico, che, complice una forte calo dell’inflazione grazie al taglio della scala mobile, a causa della maggiore spesa per interessi e nonostante un ammontare non molto dissimile da quello del decennio precedente, aumentò dal 61 al 120% in poco più di un decennio.
Fu un sostanziale anticipo del vincolo esterno che fu istituzionalizzato con la firma e l’approvazione del Trattato di Maastricht nel 1992. Il 1992, un anno spartiacque per la storia italiana, che vide abbattersi sulla nostra Nazione una vera e propria tempesta perfetta per via dello stragismo mafioso, l’esplosione di Tangentopoli, l’attacco speculativo alla lira di George Soros con conseguente svalutazione e l’uscita dallo SME per quattro anni, la prima legge finanziaria lacrime e sangue da 90mila miliardi del governo Amato con il prelievo nottetempo del 6 per mille nei conti correnti e l’avvio delle privatizzazioni a prezzi di saldo dei gioelli dell’industria pubblica, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.
Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, che era salito sul panfilo Britannia nel 1992 per annunciare alla finanza internazionale il piano di dismissioni delle aziende pubbliche, convocato in Parlamento per giustificare la sua presenza sulla nave della regina britannica, disse che le privatizzazioni servivano solo “per dare un segnale ai mercati” ma non per ridurre in termini consistenti il debito italiano a causa delle sue enormi dimensioni. Già, i mercati. Da allora li sentiamo nominare dai media ogni volta che si vorrebbe provare ad avviare politiche di bilancio più espansive, che potrebbero, aumentando il PIL, ridurre anche il disavanzo, che però dalla fine della Prima Repubblica e dall’avvento della moneta unica è aumentato enormemente, non tanto per l’adozione dell’euro, ma soprattutto per il singolare status della BCE e per l’imposizione di politiche di austerità che, dagli a ’90 ad oggi, l’Ue a trazione tedesca ha imposto a tutti i partner comunitari. Infatti, dopo una riduzione nella seconda metà degli anni ’90, grazie all’aumento della pressione fiscale, alla contrazione della spesa per investimenti e in conto capitale e grazie alla discesa dei tassi di interesse, il debito italiano riprese a salire per poi attestarsi nuovamente sul 120% rispetto al PIL.
La crisi dei debiti sovrani europei, nata come crisi dei subprime americani del 2007-08, si riversò violentemente sull’Italia dalla metà del 2011 ma fu indotta scientemente dall’impennarsi dello spread da 80 a 600 punti base nel giro di pochi mesi, a causa della vendita massiccia dei titoli di Stato italiano avviata dalla Deutsche Bank per il diniego del governo Berlusconi a contribuire a ripianare le perdite consistenti delle banche franco-tedesche in Grecia.
Il nuovo governo presieduto dal Mario Monti, nonostante le nostre banche non fossero coinvolte negli errati investimenti in Ellade, aderì immediatamente alle richieste della Commissione e con politiche di austerity estreme portò il debito a crescere fino al 130%. Poi, è storia recente.
La crisi pandemica ha indotto la Commissione Ue a sospendere il Patto di Stabilitàappena è stato evidente che anche Francia e Germania erano pienamente coinvolte dal diffondersi del virus cinese e, le conseguenti politiche espansive e di sostegno alla domanda hanno fatto crescere il debito italiano fino al 150% del PIL, poi sceso al 145%, grazie al buon andamento della produzione manifatturiera dell’ultimo biennio e soprattutto dell’ultimo trimestre, che ha portato a un decremento fino al 132%.
Ora e nei prossimi mesi, la posta in gioco sarà trovare un difficile equilibrio tra una crescita non eccessiva dei tassi di interesse decisa dalla BCE per ridurre l’inflazione dell’eurozona e una contestuale e auspicabile ripresa dell’acquisto dei titoli sovrani da parte di Francoforte per non mettere a rischio la sostenibilità del nostro debito con l’aumento dei suoi costi di servizio, utili a rendere appetibili i BTP sui mercati finanziari.
La diplomazia del governo Meloni, pertanto, dovrà essere multidirezionale, per puntare con una riforma del Patto di Stabilità e Crescita ad avere maggiori spazi di riduzione del fisco e migliori condizioni di attuazione del PNRR che possano far crescere il PIL riducendo lo spread e rendendo più sostenibile il nostro disavanzo pubblico. Senza dimenticare l’obiettivo di raggiungere un’alleanza stabile tra popolari e conservatori in Europa, prima del rinnovo dell’europarlamento nel 2024, che cambi definitivamente gli equilibri di potere e le politiche nell’Unione e consenta di difendere meglio la nostra industria agroalimentare, manifatturiera e automobilistica dall’abbraccio mortale “green” ed “elettrico” tra Germania e Cina.