La riduzione del debito pubblico è davvero un obiettivo di questo Governo? Se è vero che continuiamo a spendere per interessi più (e dunque abbiamo meno risorse per i cittadini) di tutti gli altri Paesi europei, non dobbiamo dimenticare che in passato il nostro handicap è stato molto più pesante
di Stefano Caviglia
La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza del 2019 appena approvata dalla Camera conferma che, al di là degli annunci, la riduzione del debito pubblico non è un obiettivo prioritario del Governo. Quest’anno il suo andamento raggiungerà il 132,6 per cento del Pil (135,7 secondo i criteri rivisti, non ancora implementati dal sito di Eurostat), in ulteriore crescita rispetto al 2018, mentre da qui al 2021 si prevedono leggere diminuzioni tutte da verificare sul campo che non puntano neppure alla sua discesa al di sotto del 130 per cento del Pil.
Il modo migliore per comprendere quanto sia patologica la dimensione di questo macigno, che dagli anni Ottanta del secolo scorso e rappresenta il vincolo implicito di qualsiasi progetto di rilancio della nostra economia, è osservarne l’evoluzione nel tempo e confrontarla con quella degli altri Paesi europei. Operazione non molto praticata nel dibattito pubblico italiano ma abbastanza agevole sulla base dei dati pubblicati da Eurostat, come si vede dai link riportati in questa breve analisi.
Nel 1996, l’anno precedente alla verifica dei parametri per l’adozione dell’euro, l’Italia aveva un debito pubblico pari al 116,3 per cento del Prodotto interno lordo, che era già un grosso problema, corrispondendo a un livello quasi doppio di quello previsto dal Trattato di Maastricht (60 per cento) e comunque di gran lunga superiore a quello di tutti gli altri Paesi europei tranne uno, il Belgio, come vedremo fra poco. Il nostro ingresso nella moneta unica, dunque, è avvenuto all’insegna della promessa di una riduzione progressiva di quel rapporto, che si verificò effettivamente, sebbene in modo più lento e parziale del previsto, per oltre un decennio. Poi, nel 2008, ci fu la drammatica inversione di rotta che nel giro di soli quattro anni avrebbe riportato il rapporto debito-Pil italiano più in alto del 1996. Ora superiamo quel livello di quasi venti punti, essendo il nostro debito al 2018 (al netto della revisione dei criteri accennata all’inizio) pari al 132,2 per cento del pil. (http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=gov_10dd_edpt1&lang=en. Selezionare l’opzione “Government consolidated gross debt” nella tendina National accounts indicator. Per andare indietro negli anni selezionarli nella tendina Time).
Il motivo principale di questo tradimento delle promesse italiane è stato, com’è noto, il brusco calo del Pil dovuto alla recessione globale estesasi dagli Stati Uniti a tutte le economie sviluppate nel biennio 2007-2008. Le sue conseguenze si sono fatte sentire in tutta Europa, ma i risultati non sono stati gli stessi in termini di equilibri di finanza pubblica. Il Belgio, che nel 1996 aveva un debito pari al 128 per cento del Pil, dunque ben più alto del nostro, nel 2007 lo aveva ridotto all’87 per cento e dunque ebbe buon gioco a mantenerlo poco al di sopra del 100 per cento nel momento peggiore della crisi. In Germania, uno dei paesi più virtuosi da questo punto di vista, quel rapporto ha toccato il suo picco nel 2010, con l’81,8 per cento, ma nel decennio successivo è ridisceso a poco più del 60. Anche Francia e Spagna, pur avendo registrato un brusco rialzo del debito a partire dal 2009, sono sempre riuscite a mantenerlo sotto al 100 per cento del Pil mentre noi sfondavamo il tetto del 130.
Lo squilibrio si riflette naturalmente sulla spesa per interessi da sostenere ogni anno. Nel 2018 l’Italia ha pagato per finanziare il suo debito una cifra pari al 3,7 per cento del Pil (totale: quasi 65 miliardi) contro lo 0,9 per cento della Germania (31 miliardi), l’1,7 (ancora previsionale) della Francia (40 miliardi), il 2,5 della Spagna (meno di 30 miliardi). Lo svantaggio dell’Italia in termini di risorse disponibili per i cittadini si è aggravato ulteriormente negli ultimi mesi del 2018 e nella prima metà del 2019 sotto i colpi della polemica antieuropea del Governo di Lega e 5 Stelle che, seminando incertezze sulla nostra permanenza nell’euro, ha provocato diverse impennate dei tassi d’interesse sul debito.
Da qualche mese a questa parte, per l’effetto congiunto degli acquisti di titoli della Banca centrale europea e dell’atteggiamento filo europeo del nuovo governo, la situazione si è decisamente tranquillizzata. Ma attenzione: anche i tassi allarmanti dell’ultimo anno (superiori al 2,5 per cento) sono una bazzecola rispetto a quelli di 20 o 25 anni fa (non lontani dal 10). Nell’anno precedente alla verifica dei parametri per l’ingresso nell’euro, il 1996, pur avendo un debito decisamente più basso di oggi sia in termini assoluti che in rapporto al Pil (1.228 miliardi di euro contro gli attuali 2.322 e 116,3 per cento del Pil contro l’attuale 132,2), l’Italia ha speso in interessi ben l’11,1 per cento del Prodotto interno lordo, una quota quasi da paese in via di sviluppo, contro il 3,4 della Germania, il 3,6 della Francia, il 5 della Spagna. Il che vuol dire che grazie alla discesa dei tassi verificatasi da allora abbiamo risparmiato ogni anno decine di miliardi di euro. (http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=gov_10a_main&lang=en. Selezionare la voce “interest, payable” nella tendina “National accounts indicator”. Per andare indietro negli anni, selezionarli nella tendina “Time”.
In altre parole: se è vero che continuiamo a spendere per interessi più (e dunque abbiamo meno risorse per i cittadini) di tutti gli altri Paesi europei, non dobbiamo dimenticare che in passato il nostro handicap è stato molto più pesante. Ed è esattamente questa consapevolezza che dovrebbe valere come monito. Oggi è tutto molto diverso rispetto a vent’anni fa. In primo luogo perché la Banca centrale europea si muove da qualche anno con una decisione mai vista prima per stabilizzare i tassi di interesse sui titoli dei paesi della moneta unica. Ma non è una protezione che si possa dare per scontata e soprattutto non è scontato che duri in eterno. Il fatto stesso che il rapporto debito-pil dell’Italia abbia continuato e continui a crescere equivale a una sfida ai mercati e in un certo senso anche alla sorte, anche senza immaginare la comparsa del fatidico cigno nero che ogni tanto qualcuno evoca irresponsabilmente. Se il disinteresse mostrato per questo fattore cruciale dai governi degli ultimi vent’anni dovesse prolungarsi indefinitamente, i guai si rischiano piuttosto con i cigni bianchi, ossia con il corso logico e prevedibile dei comportamenti economici di tutti coloro che acquistano, in Italia e all’estero, i titoli del nostro debito pubblico.