Entro il 10 aprile gli obiettivi di politica economica dello Stato dovranno essere presentati in Parlamento. Ma è probabile uno slittamento utile ad un accordo
Il primo banco di prova dei partiti usciti vincenti dalla competizione dello scorso 4 marzo è dietro l’angolo. Nelle prossime settimane, infatti, il Parlamento sarà chiamato ad esprimersi sul Documento di Economia e Finanza, programma che il (nuovo?) inquilino di Palazzo Chigi dovrà successivamente trasmettere a Bruxelles per ottenere il via libera dalla Commissione UE.
Se è vero che la scadenza per la presentazione del Piano è fissata al 10 aprile, è anche vero che in virtù di una situazione piuttosto “fluida” la Commissione potrebbe concedere più tempo, così da arrivare ad un documento quanto più condiviso (e attuale) possibile. Occhi puntati, dunque, su quanto accade a Roma.
Il principale strumento della programmazione economico-finanziaria dello Stato sconta tutta l’incertezza dei tempi legati alla formazione del nuovo esecutivo, cosa quanto mai incerta e vaga in base alle ultime interlocuzioni tra Movimento 5 Stelle, Lega, Forza Italia e Partito Democratico.
In assenza di un nuovo Governo entro, il compito di preparare il DEF sarà ancora in carico a Paolo Gentiloni che, però, dovrà limitarsi ad una programmazione “a legislazione vigente”, ovvero senza la possibilità di delineare interventi programmatici per il futuro. È per questo che le interlocuzioni tra il Movimento e la Lega si sono infittite, con gli sherpa dei due schieramenti pronti a tessere la tela di un accordo su singoli punti, partendo da quello che accomuna piuttosto che passare subito a ciò che divide.
Priorità (e convergenza) assoluta, dunque, alla sterilizzazione delle “clausole di salvaguardia”, ovvero l’aumento automatico dell’IVA al 25% nel 2019 qualora i conti non tornassero in sede di Bilancio. Un intervento da scongiurare del valore di 12,4 miliardi di euro nel 2019, al netto che l’Europa non chieda nei prossimi mesi anche una “manovra-bis”, intervento stimato nell’ordine dei 3 miliardi di euro. Solo una volta disinnescate queste due mine si potrà dare spazio a rendere le promesse elettorali realtà, ma con qualche difficoltà non solo contabile ma anche ideologica: mentre le due forze sono d’accordo nell’abolizione della riforma Fornero (costo stimato da 85 a 105 miliardi) i maggiori attriti derivano, da una parte, dal reddito di cittadinanza tanto caro al M5S (costo stimato: dai 15 ai 30 miliardi), progetto giudicato «culturalmente sbagliato» dallo stesso leader leghista. Dall’altra la flat-tax del Carroccio (costo stimato: 46 miliardi), ritenuta poco utile alle famiglie e molto utile, invece, ai milionari.
Ma la politica è mediazione, e una possibile exit strategy potrebbe giocarsi direttamente in un aula, dove M5S e Lega potrebbero non votare il documento che il governo uscente presenterà (prendendo le distanze, quindi, da quanto ereditato) proponendo, in cambio, una possibile risoluzione condivisa capace di impegnare genericamente il futuro esecutivo a diminuire il carico fiscale e ad aumentare gli aiuti alle fasce meno abbienti della popolazione, materie che verrebbero declinate soltanto successivamente, quando il quadro sarà più chiaro per tutti.
Ma naturalmente il tutto è appeso alla votazione dei presidenti dei due rami del Parlamento venerdì 23 marzo. Se tutto andrà liscio non è escluso che il voto sul DEF darà avvio alle prove generali di un possibile governo giallo-verde. Nel frattempo, tutti sembrano dimenticarsi del convitato di pietra, ovvero la Commissione UE e il giudizio che questa potrebbe riservare sui progetti di entrambi gli schieramenti. L’introduzione di anche solo una delle misure immaginate da M5S e Lega farebbero superare il rapporto deficit-PIL del 3%, asticella invalicabile per i tecnocrati della Commissione UE, ma a cui a l’elettorato pare non interessare.