Il diritto alla riservatezza è sancito da numerosi articoli della nostra Costituzione (2, 13, 14, 15, 21) ed è volto a tutelare la sfera privata dell’individuo. Tale diritto ci accompagna in tutto l’arco della giornata al punto che è previsto esplicitamente anche dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori durante l’esercizio dell’attività lavorativa.
Questa norma, in particolare, impedisce che il lavoratore sia controllato da remoto attraverso l’uso di telecamere o strumenti tecnologici a vista o, a maggior ragione, nascosti. Per quale motivo il legislatore è ricorso a così tante tutele nei confronti della persona garantendole di non essere osservata nella propria intimità o sul lavoro? La risposta risiede nel fatto che le immagini catturate da telecamere nascoste sono anche quelle in cui l’autocontrollo dell’individuo è naturalmente allentato perché solo e appartato, la disinibizione è massima, il comportamento magari è informale fino a essere talvolta sconveniente e via discorrendo.
Fin qui nulla di strano, ma l’artificio che segue porta inevitabilmente alla rappresentazione di una realtà distorta. Se infatti da registrazioni “occulte”, che si sono protratte per giorni, settimane o addirittura mesi estrapolo poche scene “negative”, decontestualizzandole prima e organizzandole in un “trailer” poi, non avrò fatto altro che rappresentare una realtà surreale per nulla rispondente alla verità dei fatti.
Con un esempio si riesce a rendere meglio l’idea: se si riprende di nascosto la vita coniugale di marito e moglie per un intero anno e poi si proiettano le poche volte in cui discutono o litigano in questo lasso di tempo, si comunicherà agli spettatori che il matrimonio è in crisi anche se le cose stanno affatto diversamente. Lo stesso dicasi guardando gli highlights di una partita: non si può dire con certezza chi ha avuto il maggiore “possesso palla”. La manipolazione delle videoregistrazioni può, infatti, portare a innumerevoli distorsioni della realtà proprio attraverso i processi di decontestualizzazione, selezione avversa, estrapolazione e riarrangiamento (montaggio) delle immagini.
In questi giorni abbiamo assistito a due eloquenti episodi di violazione della privacy che, seppure ammantati di buone intenzioni, rischiano di condurci fuori strada. Il primo riguarda l’ex-presidente della Camera (rea di non aver versato per tempo i contributi a una sua colf) e il secondo riguardante un giornalista che, adducendo dubbi pretesti, si è fatto vaccinare contro il Covid scavalcando la lunga fila che aveva davanti. Ambedue gli episodi sono stati portati alla luce da giornalisti che hanno effettuato indagini intrusive nella privacy dei malcapitati.
Posto che i due comportamenti stigmatizzati restano esecrabili, non possiamo avallare un sistema di spionaggio della vita altrui teso a spubblicare personaggi pubblici attraverso la condanna senza appello di un particolare della loro vita (cioè un singolo fotogramma di un intero film). L’utilizzo della gogna mediatica che ne consegue non è mai legittimo e potrebbe anche ritorcersi contro noi stessi, soprattutto se l’indagine intrusiva venisse effettuata violando la nostra privacy. In fondo ciascun individuo ha sempre qualcosa, di piccolo o grande, di cui vergognarsi o da nascondere perché siamo persone limitate per natura.
Non è infatti un caso se proprio i regimi totalitari (soprattutto ma non solo) adottavano questi sistemi facendo ricorso ai loro servizi segreti per mettere in cattiva luce, squalificare o addirittura eliminare, gli oppositori politici, spiandone senza ritegno la vita privata e i relativi vizi. Si veda a tal proposito il celebre film “La vita degli altri” che rievoca un preoccupante spaccato nella Germania dell’Est durante gli anni della guerra fredda.
Resta ora da comprendere se la violazione del diritto alla riservatezza per l’effettuazione di indagini nella scuola dell’infanzia, o nella primaria, abbia ragione di essere. Certamente prevale la tutela dell’incolumità dei bambini rispetto al diritto alla riservatezza della maestra, tuttavia non si è mai saputo di un reato grave (o di sangue) che non fosse scongiurabile tempestivamente (e non dopo mesi di lunghe e costose indagini) da parte di un attento e capace dirigente scolastico. Senza poi aggiungere che l’impiego di telecamere nascoste comporta nelle indagini il succitato rischio di manipolazione delle immagini con pesca a strascico, decontestualizzazione, estrapolazione e selezione avversa che finisce col contraffare la verità, rappresentando un mondo totalmente avulso dalla realtà ad opera – per giunta – di inquirenti non-addetti-ai-lavori.
In conclusione, seppure animata da buone intenzioni, la violazione del diritto alla riservatezza determina più problemi di quanti ne risolva e dovrebbe essere strettamente riservata a casi gravi. Ce n’è abbastanza per aprire un dibattito anche se istituzioni e maestranze sembrano inspiegabilmente disinteressate alla questione. La situazione attuale – in cui il diritto alla riservatezza sul posto di lavoro in ambito scolastico non viene più osservato – è di danno all’intero sistema scolastico e ci chiediamo incessantemente: cui prodest?