Stretta sugli affitti brevi da web. Ma il problema rimane governare l’innovazione
Dopo appena un mese dalle proteste dei tassisti contro il “concorrente virtuale” Uber, ecco che l’economia collaborativa, la “sharing economy”, quella in cui tutto si usa e nulla si possiede, mette nuovamente alla prova l’Esecutivo. Del resto, da troppo tempo questo nuovo modello economico, basato sulla disintermediazione digitale, è stato senza controllo, a scapito soprattutto delle finanze pubbliche.
Accantonato (solo momentaneamente) l’annoso problema della competizione nel campo dei taxi, l’esecutivo è dunque intervenuto nuovamente sui temi dell’innovazione – non tanto per regolarli quanto per battere cassa – mettendo sotto la lente di ingrandimento il mondo degli affitti brevi e tutti quei siti che, favorendo l’incontro tra la domanda di case-vacanze e l’offerta di alloggi, facilitano la locazione di immobili anche solo per pochi giorni, non versando un solo centesimo di tasse.
Così il Governo ha posto rimedio al problema, almeno nelle intenzioni. Con un’apposita previsione inserita nella cosiddetta “manovrina”, il decreto fiscale pubblicato il 24 aprile scorso, i tecnici di Palazzo Chigi hanno trasformato i portali online specializzati in locazioni brevi come Airbnb, Booking e Homeaway in veri e propri “esattori digitali”, attribuendogli la qualifica di sostituti di imposta, e cercando di porre un freno alle mancate dichiarazioni dei compensi percepiti dai proprietari degli alloggi.
Cos’è cambiato? Apparentemente poco. Già oggi, per gli affitti di breve durata (massimo 30 giorni) la legge prevede la denuncia del compenso ma, non vigendo l’obbligo della registrazione del contratto per periodi così esigui, difficilmente i proprietari dichiarano i proventi derivanti da queste locazioni, ostacolando oltretutto il fisco che, in assenza di qualsiasi traccia, è impossibilitato ad effettuare i controlli nell’ambito del contrasto all’evasione fiscale.
Dal prossimo 1° giugno, però, si cambia: ai redditi provenienti dalle brevi locazioni, realizzati anche (e soprattutto) grazie ai siti internet specializzati, verrà applicata la «cedolare secca», ovvero la speciale imposta già in uso nelle locazioni tradizionali e sostitutiva dell’Irpef e dell’imposta di registro. Saranno proprio gli stessi siti internet ad operare una ritenuta del 21% sui proventi della locazione, versandola poi all’erario.
Difficile poter sfuggire. Gli stessi operatori internet saranno obbligati ad inviare all’Agenzia delle Entrate una specifica comunicazione in occasione della stipula di ogni nuovo contratto (pena una sanzione da 200 a 2mila euro) e, alla fine,come ogni buon datore di lavoro, le piattaforme online invieranno ai proprietari degli immobili locati la Certificazione unica annuale (CUD) con gli importi percepiti e le tasse pagate.
Quanto resisteranno queste previsioni ai tradizionali tsunami della dialettica d’aula, in sede di conversione del decreto legge, rimane ancora un’incognita. Una cosa, però, è certa: le norme oggi in vigore appaiono già obsolete e non all’altezza di competere con la rapidità con cui le innovazioni tecnologiche trasformano le logiche economiche, nuove dinamiche che costringono gli Stati a giocare sempre di rimessa.