Di Paolo Falliro
“Dopo 12 anni dalla legge 38/2010 le terapie contro il dolore raggiungono appena il 20-25% degli aventi diritto, con enormi e inaccettabili differenze territoriali. Si prova a far passare come un “diritto” la volontà innaturale di mettere fine ad una vita. Noi invece puntiamo a ribaltare la questione, nel solco dei continui richiami di Papa Francesco a realizzare una società in cui nessuno sia scartato”. A dirlo in un’intervista a LabParlamento è Domenico Menorello, componente del Comitato Nazionale di Bioetica e coordinatore della rete associativa Ditelo sui tetti.
Caregiver e cure palliative: sono queste le due azioni di “Ditelo sui tetti” contro la ‘cultura’ di morte?
Sono due dei pilastri di un’agenda formata, in questo momento, da 65 obiettivi per la vita, che decine di associazioni condividono e aggiornano innanzitutto per comprendere che vi è una filigrana antropologica che sostiene le leggi come tutte le decisioni politiche. E, almeno dal caso Englaro in poi, per anni abbiamo visto susseguirsi provvedimenti legislativi e sentenze che affermavano come il valore della persona starebbe solo nella capacità di “autodeterminazione”, di possesso del reale, in sostanza di “successo”. E se questa capacità viene meno o diminuisce, la vita non sarebbe più dignitosa, così da poter essere abbandonata e scartata se fragile, malata o invalida.
Cosa dicono invece le cure palliative?
Che la cura e non l’abbandono è la postura più ragionevole per l’umano. Ma dopo 12 anni dalla legge 38/2010 le terapie contro il dolore raggiungono appena il 20-25% degli aventi diritto, con enormi e inaccettabili differenze territoriali. Forse che un cittadino della Calabria ha meno diritto di un lombardo di essere alleviato nel dolore e curato sino alla fine? Così, è apparsa a molti assolutamente ragionevole la nostra proposta di voler “senza se” e “senza ma” invertire una rotta troppo negativa. Soprattutto abbiamo incontrato la disponibilità concreta del Governo, che ci ha ricevuto a Palazzo Chigi il 7 dicembre scorso, e di molti parlamentari. In particolare, l’emendamento alla legge di bilancio Caroppo-Cattaneo (FI), che ha tradotto la lettera aperta delle 90 associazioni dell’Agenda “Sui tetti” sulle palliative, è stato approvato dalla commissione Bilancio e diverrà legge con l’approvazione finale della manovra, dando un segnale proprio in questo senso.
In cosa consiste il provvedimento?
“Disincaglia” finalmente il nostro paese dalle secche in cui – come si diceva – era finito alla voce “terapie contro il dolore”. Si prevede un obbligo preciso in capo alle regioni di riorganizzare le cure palliative, proponendo un piano di potenziamento entro il 30 gennaio di ogni anno, in modo che in cinque anni possano essere usufruite dal 90% della popolazione, con una omogeneità nel territorio italiano che oggi non esiste. L’obbligo è stringente, perché il progetto sulle palliative diviene una condizione per l’erogazione a ogni Regione delle risorse dello Stato per la sanità e si affida all’agenzia Agenas lo specifico compito di monitorare semestralmente l’attuazione del previsto potenziamento, così si innescherà un circuito di concorrenza virtuosa fra i Sistemi Sanitari Regionali nella cura della vita fragile. Intendiamo promuovere una cultura di vita con la forza della ragione e della ragionevolezza e non ci fermeremo dinanzi alla facile retorica di chi cerca scorciatoie, che in realtà sono il portato di una cultura neoindividualista che derubrica il valore assoluto di ogni istante di vita.
In Italia si tenta di offrire l’eutanasia per non assistere i fragili?
Si prova a far passare come un “diritto” la volontà innaturale di mettere fine ad una vita. Noi invece puntiamo a ribaltare la questione, nel solco dei continui richiami di Papa Francesco a realizzare una società in cui nessuno sia scartato. Nei mesi scorsi abbiamo girato l’Italia per approfondire questa tematica e sempre i palliativisti ci hanno testimoniato come la domanda di morte sia una domanda di aiuto, che scompare quando vi è una seria terapia del dolore e una compagnia nelle circostanze di sofferenza.
Per questa ragione il suicidio assistito è una mera scorciatoia, che vuole negare come la persona non smetta mai di esprimere una domanda di senso specie nel dolore e dunque manifesti sempre tutta la grandezza e il valore dell’umano. Chi ha il diritto di misurare la vita e la morte? Più che imporre soluzioni ideologiche e disumane, tutti dovremmo prendere sul serio almeno il monito della Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 242/19 ha definito le terapie del dolore un diritto essenziale, che oggi è ancora troppo impedito e negato. La proposta elaborata “sui tetti”, che sta diventando legge, finalmente imbocca la direzione richiamata dalla Consulta.
Il Pd con Bazoli nella scorsa legislatura aveva depositato un ddl al Senato per il suicidio medicalmente assistito ma escludendo l’eutanasia attiva: che ne pensa?
La spinta eutanasica in quella proposta c’era tutta e non credo possa essere nascosta con l’utilizzo di una terminologia fuorviante, aggettivando la morte come “attiva” o “passiva”. Vedo molto “grigio” in questa modalità ambigua di legiferare, tentando di dribblare una questione che è, invece, tremendamente limpida: se a chi non può “autodeterminarsi” diciamo per legge che può essere aiutato ad andarsene, lo stiamo giudicando inutile, privo di valore.
E’ una opzione che incoraggia la rassegnazione e propone disperazione, dimenticando che, invece, nel cuore dell’uomo la speranza non si spegne mai. Giocare sul filo della terminologia significa voler nascondere la cultura nichilista che sorregge proposte di quel tipo. Invece, è bene che il dialogo su diverse concezioni dell’umano sia chiaro e ci si confronti sulle ragioni che sono al fondo di una scelta eutanasica o di una scelta di cura.
Se sono chiare le alternative antropologiche, ognuno di noi ha gli strumenti critici per giudicare se sia più ragionevole essere accolti anche (e soprattutto) nei momenti di fragilità o venire abbandonati quando incombe la sofferenza.
L’Ambrogino d’oro assegnato a Marco Cappato è stato un errore?
Lo avrei piuttosto dato a quei medici che lottano quotidianamente per mantenere accesa la fiammella della vita, per curare sempre ogni persona. E durante il Covid abbiamo tante volte ammirato dei veri e propri angeli fra noi. A loro va la nostra riconoscenza.
Nel volume “Droga. Le ragioni del no” a cura di Alfredo Mantovano lei ha osservato che il referendum sulle droghe leggere si pone in contrasto con le Convenzioni internazionali sugli stupefacenti: perché?
La nostra posizione è contraria alla legalizzazione di certe sostanze stupefacenti per un dato di realtà e per una scelta di direzione. Parliamoci chiaro: affermare una minore pericolosità della cannabis con le attuali quantità di THC rispetto alle c.d. “droghe pesanti” è una fake news clamorosa. Gli esempi sono purtroppo quotidiani, come il caso del GHB, l’acido γ-idrossibutirrico, mediaticamente noto come droga dello stupro. Inoltre, non possiamo mai dimenticare che una legge indica un ritenuto “bene”, un valore. Tant’è che nel linguaggio usiamo l’aggettivo “legale” come sinonimo di “positivo”. La droga è una fuga dalla realtà. Vogliamo davvero, legalizzandola, dire ai giovani (e non solo) che è un bene scappare dal reale, non accettarne le sfide e le responsabilità?