Il dibattito nei due rami del Parlamento, come già documentato, non è ancora terminato, anzi si arricchisce del vero pezzo forte, l’autentica Grande Riforma. In Italia le micro-riforme, quelle parziali che rimodulano singole disposizioni della Carta, hanno sempre avuto buona sorte.
Parecchi punti della Costituzione sono stati «ritoccati», anche sostanzialmente, dal 1948 ad oggi, ma mai si è riusciti ad approdare ad una riforma degna di questo nome. Ci ha provato prima Berlusconi nel 2005, con un tentativo affondato dopo la celebrazione del referendum nel 2006, poi Renzi, che nel 2016 ha visto prima approvare e successivamente naufragare in sede referendaria la sua legge di riforma palingenetica.
In data 4 luglio 2020 (Independence Day, data non casuale) il senatore leghista Manuel Vescovi ha presentato in Senato una legge costituzionale (che in alcuni suoi risvolti ho contribuito a scrivere) che incide robustamente sulla Costituzione nella sua interezza in chiave presidenzialista e federalista. La visione che sottende riprende istituti, formule, principi e modelli che dimorano nel sistema statunitense e anglosassone, in quello germanico (per quanto riguarda persino la nuova composizione e funzione del Tribunale Costituzionale federale) e francese, nella porzione riguardante la creazione di due Consigli Superiori della Magistratura, uno per i decidenti e l’altro per i pubblici ministeri.
Le regioni italiane, una volta approvata la riforma Vescovi, si trasformeranno in veri e propri Stati, parti della nuova Italia federale, e provvisti di propri Parlamenti, propri Governi e propri giudici. Successivamente alla nascita degli Stati Uniti d’America (1776, Dichiarazione di indipendenza; 1787, Costituzione federale) la forma dello Stato federale assume una connotazione compiuta, la cui vitalità è attestata dal sempre più frequente suo ripresentarsi sullo scenario costituzionale mondiale (Canada, Germania, Svizzera, India, Australia, Brasile; il Belgio è uno Stato federale su base etnica: valloni, francofoni e fiamminghi di lingua olandese).
L’Italia abbandona le vesti dello Stato unitario decentrato-regionale per coprirsi con i panni dello Stato federale volto verso un nuovo orizzonte, la «felicità dei cittadini», che fa propria la «ricerca della felicità» inserita nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 4 marzo 1776, che, a sua volta, ha ripreso il pensiero del filosofo partenopeo Filangeri: dall’Italia è sorta, all’Italia torna.
Assistiamo, inoltre, al pieno riconoscimento della tutela e della protezione del lavoro in ogni sua dimensione e sfaccettatura, da quello subordinato pubblico e privato all’attività imprenditoriale in tutte le sue angolature. L’azione imprenditoriale posta in essere ogni giorno e in ogni parte d’Italia dà corpo all’ossatura portante, insieme al lavoro dipendente pubblico e privato, dell’economia italiana. Finalmente l’esercizio dell’attività di impresa viene rafforzato abbandonando retaggi marxisti.
Se il primo caposaldo è il federalismo integrato dal diritto alla felicità e dalla imprenditorialità ed imprenditività, il secondo fondamento della «Grande riforma» Vescovi è modellato sul presidenzialismo, ossia da quell’autentico cambiamento epocale richiesto da decenni dai più eterogenei ambienti politici, sindacali, istituzionali, culturali, accademici e sociali.
Per presidenzialismo si intende quella forma di governo che vede realizzato nella medesima persona – eletta direttamente dal corpo elettorale – il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale, garante della Costituzione e somma magistratura dello Stato (Presidente della Repubblica) e quello di Capo del Governo-Premier (Presidente del Consiglio dei Ministri).
Per grandi linee vi sono due tipi di presidenzialismo: all’americana (c.d. «presidenzialismo puro») che assomma in sé entrambi i poteri e alla francese (c.d. «semi-presidenzialismo»), nel quale il Presidente della Repubblica possiede una parte sostanziosa di poteri governativi, mentre il Primo Ministro da lui nominato ne ha in dotazione la restante minor quota.
La riforma costituzionale di cui parliamo rimanda ad un modello presidenziale somigliante a quello statunitense, pur rimanendo del tutto diverse le regole elettorali: il Presidente della Repubblica federale italiana sarebbe eletto direttamente dal Popolo, mentre il Capo di Stato a stelle e strisce dai “Grandi elettori” votati, a loro volta, dai cittadini statunitensi.
L’attuale elezione del Presidente della Repubblica si svolge nel Parlamento in seduta comune, mentre il Presidente della Repubblica federale sarebbe scelto elettoralmente dalla Comunità nazionale. Al nominativo di un candidato a Presidente della Repubblica è collegato il nome di un candidato a Vicepresidente della Repubblica (figura attinta dagli States): l’elezione, al primo o secondo turno, di un candidato alla Presidenza della Repubblica provoca automaticamente l’elezione del Vicepresidente della Repubblica a lui correlato.
La durata del mandato presidenziale e vicepresidenziale è quinquennale a differenza dell’attuale Inquilino del Quirinale che “scade” dopo sette anni. La riforma tocca anche il sistema di tassazione rendendolo costituzionalmente più equo, fissandone limiti massimi invalicabili. L’equo principio di progressività viene mantenuto ma la restante parte dell’art. 53 Cost. muta radicalmente. La tassazione avverrà su tre livelli: federale, statale e comunale.
Per ognuno di questi tre livelli è stabilito un limite invalicabile di tassazione: 10 per cento a livello federale; il 15 per cento per gli Stati e il 5 per cento in relazione alle amministrazioni comunali. La somma delle tre soglie non può superare l’imposizione complessiva del 30 per cento, avvicinandosi al tendenziale paradigma tributario statunitense massimo del 33 per cento.
La locuzione “redditi percepiti” indurrà il Legislatore ad una riflessione sull’assillo di molti Governi del globo, ossia sulla necessità di riscuotere le imposte dai giganti del web (Google, Amazon, Facebook, etc). Il vocabolo “percepiti” argina grandemente l’evasione fiscale in quanto, anche qualora la sede legale, l’ubicazione del server o il luogo di prevalente svolgimento di attività o forniture di servizi di una azienda, società o impresa fossero al di fuori del territorio italiano, ciò che prevarrà ai fini della individuazione del soggetto imposto e della base imponibile sarà solo e soltanto la località dove il reddito sarà acquisito, ricevuto, introitato, ossia ove il pagamento sarà effettuato o la somma liquidata.
La percezione di un reddito in Italia renderà l’Agenzia della Entrate automaticamente ente impositore di quanto percepito, ad esempio, da Amazon a titolo di corrispettivo dell’acquisto on line di un libro riconducibile al territorio nazionale (ID, cella telefonica o altro mezzo di identificazione telefonica, elettronica o telematica italiano).
Roma, per finire, diviene la capitale della Federazione e sarà la legge federale a disciplinarne l’ordinamento nel senso adeguatamente autonomista. Concludo dicendo che non esistono sistemi costituzionali perfetti, migliori o superiori ad altri, ma formule organizzative, storicamente validate e socialmente apprezzabili, in maggior o minore misura capaci di fornire soluzioni a vistosi mutamenti ordinamentali e ad altrettanto considerevoli “mutazioni” sociali.
Non esiste cambio di schema di gioco di ordine giuridico che non comporti ineluttabilmente riflessi di grande portata anche sul terreno dell’economia: più l’asticella si alza verso una qualitativa e celere capacità decisionale rispettosa della volontà popolare, verso un più intenso avvicinamento del “comando” alle genti “comandate”, e maggiormente fruttuose saranno le ricadute favorevoli sulla economia reale italiana, specie se il sistema elettorale si orienterà in direzione di uno schema di genere maggioritario.
Una riforma non è un vacuo chiacchiericcio accademico per pochi addetti ai lavori, non un noioso almanaccare fra vecchi e polverosi barbogi, ma economia, PIL, redditività e produzione di ricchezza, maggiore o minore benessere per una comunità locale e nazionale, sangue e vita di esistenze reali. Solo se si prenderà contezza che il diritto non è una dimensione astratta che dimora nell’iperuranio, ma intima connessione con l’economia, di cui ne determina le condizioni ed i presupposti per il suo maggiore e stabile sviluppo, si comprenderà che solo corpose, durature e ampie riforme potranno condurre noi italiani ad uscire dal pantano dove siamo immersi dai primi anni Novanta.