Su fatto che Draghi avrebbe avuto molti ammiratori e quindi molti gruppi parlamentari (cosa diversa dai singoli parlamentari, che qualche mal di pancia sparso lo stanno esternando) disposti a sostenerlo nella sua nuova avventuram, credo che nessuno avesse dei dubbi.
I dubbi vengono quando ci si chiede nel concreto quale spazio reale di manovra avrà SuperMario nel momento in cui dovrà mettere mano ai non pochi e non piccoli problemi di un paese non certo in buona salute. Perché, dobbiamo essere sinceri, Draghi non ha di fronte a sé moltissimo tempo in quanto, da un lato, nominato il nuovo Presidente della Repubblica tra un anno, le spinte ad andare a votare cresceranno di intensità (magari attraverso scontri sempre più ricorrenti tra le forze politiche che sosterranno il Governo) e, dall’altro, anche volendo immaginare di arrivare al 2023, termine fisiologico della attuale legislatura, in due anni non si può pensare di riformare e rilanciare un paese come l’Italia, per giunta appena uscito (speriamo tutti) da un pandemia.
Gli interventi prioritari richiesti al nuovo Governo riguardano l’emergenza Covid (con il relativo piano vaccini ed un ulteriore sostegno alla categori più colpite dalla crisi) e la definizione dettagliata (o, se volete, la riscrittura) del Recovery plan: in fondo si tratta di provvedimenti su cui non sarà impossibile trovare un accordo tra i sostenitori dell’esecutivo, visto anche l’urgenza di dare risposte.
È difficile, infatti, immaginare che nel breve termine si possa fare altro. Si pensi, ad esempio, alla scadenza del blocco dei licenziamenti prevista il 31 marzo p.v.: difficile credere che questo non venga ulteriormente rinnovato per qualche mese, stante l’impossibilità nelle poche settimane che mancano a quella data di trovare una soluzione di “sistema”. Insomma, si può immaginare che fino alla fine dell’estate la “luna di miele”, tipica di un qualsivoglia nuovo governo dovrebbe reggere e portare frutti positivi.
Le difficoltà sorgeranno quando si dovrà impostare la nuova finanziaria che dovrà contemporaneamente favorire lo sviluppo e insieme immaginare i primi passi per rientrare da un debito pubblico che nel frattempo (causa maggior deficit e minor PIL) ha raggiunto percentuali preoccupanti: quanto ancora l’UE, Draghi o non Draghi, attenderà per chiedere provvedimenti in grado di rimettere le finanze pubbliche italiane su un percorso virtuoso di riduzione del disavanzo?
E solo allora si misurerà il valore di Draghi. Solo allora si vedrà come intende applicare il principio, da lui stesso espresso al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini l’estate passata, di “debito buono”, di debito, cioè, che venendo investito in attività creatrici di ricchezza consente di utilizzare l’effetto “leva”, attraverso un rendimento ottenuto superiore al costo sostenuto.
Se dovessimo, infatti, ragionare “a tavolino” e non prendere in considerazione le reazione dei partiti e dei sindacati, i passi che il quasi-certo futuro premier dovrà prendere sono ineludibili e indifferebili, soprattutto per un europeista keinesiano come lui: l’eliminazione dei sostegni “a pioggia” ai settori colpiti dal Covid – specie quelli oramai superati dalle evoluzioni intervenute nel mercato in questi mesi – a favore di incentivi verso nuove iniziative imprenditoriali; la modifica del sistema pensionistico, con collegata abolizione di “quota 100” e l’allungamento dell’età lavorativa; l’abolizione del reddito di cittadinanza e trasformazione di questo in un incentivo per le imprese all’assunzione ed alla ristrutturazione produttiva; l’introduzione di una ulteriore maggiore flessibilità nel mercato del lavoro; una riforma radicale della PA, con particolare attenzione al pubblico impiego, alla sua nota scarsa produttività ed eccessiva sindacalizzazione, con l’ipotesi di introdurre meccanismi di licenziamento anche in questo settore; la modifica di un sistema scolastico troppo vincolato alla disponibilità dei docenti di muoversi dalle proprie residenze.
Si tratta di alcuni esempi di nodi molto difficili da scioglere anche per un governo con un forte consenso elettorale e con un orrizzonte tempolare di una intera legislatura, figuriamoci per il governo Draghi.
Ma non possiamo illuderci, non possiamo pensare che prima o poi queste questioni non vadano affrontate: in fondo l’emergenza sanitaria ha solo consentito di rinviare un redde rationem che lo stesso Draghi, prima da Governatore della Banca d’Italia e poi da Presidente della BCE aveva posto all’attenzione degli esecutivi italiani. Ora tocca a lui. Ce la farà?
Se devo essere sincero, non vedo nel tessuto politico italiano quel livello di maturità e consapevolezza che simili decisioni, così impopolari, richiederebbero, ma voglio sperare che l’esperienza vissuta in questo anno trascorso, sia rispetto al Covid sia rispetto alla decadenza mostrata dalla politica nostrana, abbia insegnato qualcosa.