A meno di dodici mesi dall’inizio della pandemia, e ripensando solo agli straordinari poteri che mai in tempo di pace erano stati conferiti nelle mani del governo, la salita di Mario Draghi – e non quella Giuseppe Conte al Colle – ha dell’incredibile. Il nuovo umanesimo, insomma, è morto nella culla.
Di certo, al di là dei risvolti politici che ne seguiranno, questa fase segna la rinascita, piuttosto prepotente, del parlamentarismo e del frazionamento del quadro politico che, in caso contrario, mai si sarebbe affidato a un peso da novanta come Draghi, se non altro perché difficilmente permetterà a questo o quello schieramento di farsi tirare per la giacca.
Questa legislatura si era aperta con numerose anomalie. La prima: un partito con oltre il 30% dei voti – e non si vedeva dai tempi della trionfale entrata in Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi – decise di affidarsi ad una personalità esterna, sino ad allora un perfetto sconosciuto.
La seconda: non avevamo mai assistito ad un Presidente del Consiglio a capo di due coalizioni totalmente differenti, segno di come sia difficile, anche per partiti strutturati come Pd e Lega, imporre un leader che possa essere in grado di assumersi le responsabilità di governo e, allo stesso tempo, entrare in sintonia con il Paese.
Questo, ad onor del vero, Conte lo ha fatto e nel momento in cui si appresta a lasciare Palazzo Chigi si riavvia al ritorno alla vita accademica con un indice di gradimento tra i più alti di sempre per i premier in uscita. La terza: mai si era vista nella storia parlamentare che una corrente, salita al governo sotto l’indicazione del proprio partito, ne uscisse praticamente il giorno dopo, andando a determinare le sorti del governo, sempre costretto a difficili mediazioni per via del decisivo sostegno dei “cespugli”.
Quarto punto, e a questo punto dirimente, per la prima volta in una legislatura chiamati a formare un nuovo governo sono stati due tecnici, Cottarelli e Draghi. Se la convocazione del primo permise a M5S e Lega di superare le divisioni e in quarantotto ore mettersi d’accordo, la chiamata di Draghi appare come l’estremo tentativo di salvare il salvabile e forse cominciare a contare qualcosa anche nei consessi internazionali dove, non certo da oggi, l’Italia appare debole e poco credibile.
In un colpo solo, Mattarella, mette sul piatto della bilancia un pezzo da novanta, l’unico politico italiano conosciuto più di quanto non sia Merkel o Macron. Una personalità che, anche durante i suoi nove anni, è stata ben abituata alla mediazione e al compromesso al rialzo. Compromessi strappati alla vigilanza economica ostile tedesca e che ha permesso all’Europa (e all’Italia) di scampare il pericolo della grande crisi degli anni ’10.
Quello di Draghi è certamente il nome migliore che si potesse spendere, l’unica riserva della Repubblica ancora arruolabile e che goda di stima trasversale. Ma già da oggi, così come accadde con Mario Monti, per Draghi inizierà una fase complessa dove, la pandemia, unita alla situazione economica, si incrocerà con la politica e con un sistema proporzionale e sempre più centrifugo.
La fortissima personalità di Draghi, in un primo momento riuscirà a far dimenticare la debolezza dei leader dei vari partiti ma poi, con l’avvicinarsi andrà inevitabilmente a scemare: c’è da chiedersi, piuttosto, se qualcuno ne approfitterà per prenderselo come leader: una fava per due piccioni.