Mario Draghi è stato invocato come un messia laico da tutti i “culti” partitici a più riprese. Un nome che, dai bar di periferia sino alle stanze più barocche del potere di ogni ordine e grado è stato, almeno una volta, giocato come jolly per uscire anche da impasse dialettiche. Una garanzia di serietà e preparazione, di statura internazionale e di competenza indiscussa sul quale tutti, storcendo bocche e facendo scintillare gli occhi, dovevano in qualche modo convergere. Alla fine il redentore delle sorti del Paese è arrivato, spiazzando le preghiere, false o sentite, di tutte le forze politiche che hanno dovuto fare i conti con la differenza che intercorre tra ideale e reale.
Alla luce di queste premesse la prima grande questione della difficile missione del professor Draghi in quella che sarà la sua epopea a Palazzo Chigi può dirsi in qualche modo già risolta. Non c’è da fraintendere e le consultazioni lo hanno già dimostrato: non sarà facile per l’ex presidente Bce comporre un governo, trovare l’equilibrio e fare sintesi tra realtà, che anche per tradizione, sono use a contrapporsi a priori. Tuttavia, almeno nelle prime battute, i partiti continueranno la gara a sostenere il “Salvatore” per non incappare nella pena di essere criticati da parti sociali, categorie produttive, istituzioni internazionali e, cosa più temibile, intere fasce di cittadinanza che da tempo ritengono Draghi l’unico in grado di far ripartire il Paese.
Tutto questo almeno fino a che il premier incaricato non entrerà nella fase operativa e inizierà a prendere una lunga serie di decisioni impopolari. Si comincerà con la scelta dei ministri: la politica si ferma al primo e al secondo livello con il titolare del dicastero e un paio di sottosegretari; una figura capace come l’ex presidente Bce sa invece che la macchina del singolo ministero, specie quelli con alta capacità di spesa come Mef e Mise, si articola in compagini di direttori e funzionari che fanno girare gli ingranaggi. In questo senso occorre la maggiore continuità possibile per non perdere altro tempo e recuperare il terreno perso su tanti ambiti, partendo dal tanto discusso Recovery Plan.
Il Next Generation Eu è infatti solo il più noto dei fronti aperti: servirà rimettere in moto in fretta tutta la macchina parlamentare, con le camere ferme dal 26 gennaio e le commissioni solo in fase “auditiva” per lavorare alacremente. Due esempi su tutti: la Legge di Bilancio 2021 necessita di oltre 170 decreti attuativi per essere attuata e il Milleproroghe, pur essendosi “sgonfiato” da 2.500 a 900 emendamenti, resta ancora un omnibus da trattare con cautela.
Se il motore diesel dell’apparato governativo nazionale comincerà a carburare bisognerà intervenire fortemente con riforme strutturali, come ha ribadito a più riprese lo stesso Draghi, uscendo dalla logica dei sussidi e da interventi a pioggia utili solo a sperperare denaro pubblico. Questo sarà un terreno particolarmente delicato per il prossimo inquilino di Palazzo Chigi: lui sa bene che negli ultimi decenni le operazioni di finanza pubblica sono state mirate principalmente ad ottenere consensi e sa altrettanto bene che senza la via delle riforme (fiscale, del lavoro, pensionistica, sanitaria, scolastica, giudiziaria giusto per elencare le principali) non sarà possibile imbroccare seriamente la via della ripresa economica.
Una ripresa, anche lenta ma crescente, andrebbe a impattare su un altro problema assente dagli onori di cronaca di questi giorni, ovvero il debito pubblico. L’antico convitato di pietra dell’economia nazionale ha raggiunto, nel 2020, la cifra di 2.500 miliardi di euro, con un incremento nel rapporto debito/PIL del +23% e una crescita del peso pro capite per ogni connazionale di 5.420 euro. Cifre che possono far rabbrividire i comuni mortali ma non un banchiere di lungo corso come Mario Draghi che ben sa come si possa convivere con un debito, anche ingente e che la sola risposta per ridurlo è, ancora una volta, rassicurare gli investitori con una costante crescita economica.
Tuttavia il mercato da solo, non risolve i problemi e se è vero che le borse hanno sciabolato champagne alla nomina di Draghi è anche vero che la riduzione dello spread e i suoi benefici sono, in prima battuta, in ambito finanziario. L’economia reale passa da altro, dal garantire continuità alle imprese e dal ridare vitalità alla domanda interna, ovvero ai consumi in sofferenza da un decennio e in caduta verticale dall’inizio dell’emergenza sanitaria.
I consumi però, crescono quando cresce la capacità di spesa e, con il rischio di 1 milione di disoccupati una volta terminata la bolla del blocco dei licenziamenti, non si va molto lontano. Si apre dunque l’altra grande questione sul tavolo del prossimo Presidente del Consiglio: il lavoro. L’Istat ha certificato 444mila posti di lavoro persi lo scorso anno, tre quarti dei quali di personale femminile. La crisi legata al Covid-19 ha infatti colpito prevalentemente settori votati a un’occupazione prevalentemente femminile ma ha anche scoperchiato il vaso di Pandora su mancanze storiche del sistema: da una seria infrastruttura di conciliazione vita privata e professionale a un tema, per così dire culturale, che si può riassumere con il gender gap che non è di certo solo salariale ma tocca anche la ripartizione dei compiti all’interno della famiglia e, più in generale, della società.
Un insieme di fattori che sfoltirà le fila dei sostenitori, aumenterà quelle dei detrattori e che comporterà il balzo dal Paese delle meraviglie a quello reale per il professor Draghi, sullo sfondo di una pandemia ancora lungi dall’essere archiviata.