Sia che vinca che il Sì, sia che vinca il No, al premier converrebbe dimettersi. Ecco perché sarebbe meglio anticipare questa mossa
Il 4 dicembre è sempre più vicino e presto sapremo se la riforma costituzionale potrà entrare in vigore oppure se lo sforzo fatto dal Parlamento (due lunghi e intensi anni di lavori e dibattiti) sarà stato vano.
È opinione comune che in caso di vittoria del No Renzi considererà chiusa la sua prima esperienza a Palazzo Chigi e rassegnerà le sue dimissioni aprendo ufficialmente una crisi di governo. Questo, oltre che per scelta politica personale, anche perché con il referendum i cittadini non boccerebbero senza appello solo la riforma in sé ma anche il lavoro del Parlamento (e del Governo, il cui imprinting sulla riforma è innegabile).
Lo scenario post voto sarebbe quello del popolo sovrano che sconfessa l’organo chiamato a rappresentarlo e lo fa non su una legge qualunque bensì sulla legge di riforma della Costituzione, ossia sulla più importante delle riforme.
Tuttavia, anche se dovesse vincere il Sì il premier avrebbe l’interesse a far precipitare la situazione (dimettendosi) per provare a votare nei primi mesi del 2017 e passare all’incasso, come avrebbe dovuto fare già nel 2014 dopo l’eclatante risultato delle elezioni europee. Questo anche per colmare quel deficit di credibilità che molti gli attribuiscono per essere arrivato a Palazzo Chigi “senza passare dal voto”, contrariamente a quanto aveva affermato prima della staffetta con Enrico Letta nel febbraio 2014.
In più, come potrebbe continuare a operare il Senato di oggi se il popolo si esprimesse a favore del nuovo Senato previsto dalla riforma Boschi? Come ha fatto notare sul punto il costituzionalista Michele Ainis: “Si può tenere in vita, per un paio d’anni ancora, un Senato abrogato dal voto popolare? Sarebbe come se nel 1948, dopo l’entrata in vigore della Carta repubblicana, si fosse lasciato sopravvivere il Senato regio, come un fantasma intrappolato nella città dei vivi”.
Verosimilmente, sia che vinca il Sì sia che vinca il No, assisteremo presto alle dimissioni di Renzi.
E se invece Renzi decidesse di dimettersi prima del 4 dicembre, cioè prima del referendum?
In un sol colpo eliminerebbe il problema della personalizzazione del referendum derivante dall’aver legato alla vittoria del Sì la sua permanenza a Palazzo Chigi. Così facendo toglierebbe ossigeno, nel rush finale della campagna elettorale, a tutta quella serie di attacchi politici che gli arrivano dal fronte del No. Riuscirebbe probabilmente anche a far convergere sul Sì molti di coloro i quali sono ancora indecisi o favorevoli al No perché infastiditi dalla personalizzazione innescata proprio dal premier, considerando questa il “peccato originale” della riforma.
Renzi risulterebbe pure lontano dal cliché del politico che resta attaccato alla poltrona. Dimostrerebbe di essere diverso dai “vecchi politici”, come lui stesso ama definirsi, alzandosi da quella poltrona prima del giudizio degli elettori. Potrebbe poi giocarsi questa carta reputazionale nella campagna elettorale che seguirà nei prossimi mesi, quella per le elezioni politiche.
In definitiva, dimettersi per dimettersi, a Renzi converrebbe farlo prima del 4 dicembre, a prescindere dall’esito del voto. E se per Andreotti era “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, un suicidio (politico) assistito potrebbe regalare a Renzi una lunga vita (politica) dopo.
In ogni caso, dopo, sarebbe lui a poter fare la voce grossa durante le consultazioni presidenziali. E verosimilmente, senza i voti del PD, questo Parlamento non è in grado di “eleggere” nessun nuovo Esecutivo. Renzi stesso ha già fatto sapere di non essere disposto a facilitare la formazione di un Governo tecnico o di scopo. Troppo diverse le posizioni e troppo inconciliabili gli obiettivi dei vari partiti di opposizione per poter risultare credibili agli occhi del Presidente Mattarella nella fase di esplorazione per la formazione di un Governo capace di sostituire quello dimissionario: lo scoglio della fiducia parlamentare sarebbe subito fatale.
Sarebbe comunque Renzi a guidare ancora il PD in vista del futuro Congresso. Anticipando le dimissioni toglierebbe molti argomenti alla minoranza dem, che si presenta spaccata ora e che dopo ne risulterebbe ancora più frastagliata.
Dimettendosi prima, Renzi renderebbe anche più accettabile agli occhi dell’opinione pubblica quello che sarebbe il successivo ennesimo ricorso alle elezioni anticipate, perché arriverebbero a prescindere dal voto referendario e non come conseguenza diretta della vittoria del No.
Ma la tempistica con cui il Presidente del Consiglio deciderà di formalizzare questo passaggio potrebbe fare la differenza.
Renzi si metterebbe in una posizione di oggettivo vantaggio, giocherebbe d’anticipo sui tempi e sui competitor, spiazzerebbe tutti e probabilmente questa mossa risulterebbe decisiva per la vittoria del Sì al referendum e anche per il successivo dispiegamento della campagna elettorale per la formazione del nuovo Parlamento (e per la sua personale riconferma a Palazzo Chigi). Dimostrerebbe una volta di più di essere un abile stratega, capace di leggere il momento e di anticipare le mosse degli avversari.
Dimettendosi prima e a prescindere dal risultato referendario, Renzi avrebbe più chance di vincere le sue battaglie politiche. D’altronde, come si legge ne “L’arte della guerra”, il trattato di strategia militare di Sun-Tzu, “i guerrieri vittoriosi prima vincono e poi vanno in guerra”.