I cinque “grandi” soci dell’Ue sono governati da leader di altrettante ispirazioni politiche diverse e il prossimo Parlamento europeo sarà verosimilmente il più variegato e frammentato da quarant’anni a questa parte
di Luca Tentoni
Come sembra inevitabile, il voto del 26 maggio ci restituirà un Parlamento europeo molto più frammentato e meno “governabile” del precedente. Si richiederanno verosimilmente alleanze fra più famiglie politiche rispetto al passato. Anche il panorama dei maggiori paesi europei è caratterizzato da una varietà “arcobaleno” di governi e maggioranze parlamentari nazionali.
Le “grandi ondate” di un tempo (quando si affermavano la “terza via” a sinistra o i partiti popolari) sembrano lasciare spazio ad un caleidoscopio dai colori un po’ sbiaditi. Infatti, le maggiori famiglie politiche (popolari e socialisti in primo luogo) appaiono indebolite, anche sul piano interno nei rispettivi Stati.
Restando ai cinque paesi più importanti dell’Unione (Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Spagna) si nota come ognuno abbia una maggioranza di governo diversa: in Germania la “grande coalizione” guidata dalla Merkel (PPE) fra democristiani e socialisti (la terza in 14 anni, col solo intervallo – fra il 2009 e il 2013, della coalizione Cdu-Csu-liberali); in Francia, il governo Philippe è espressione della maggioranza del partito La République En Marche (fondato dal presidente della Repubblica Macron), di origine composita ma di orientamento liberale (ALDE); in Italia, l’Esecutivo guidato da Conte è invece ancor più eterogeneo, perché è frutto dell’accordo fra due partiti (M5s e Lega) che in Europa non appartengono alla stessa famiglia politica (è una sorta di “grande coalizione”, a suo modo) e che non fanno parte di alcun grande partito europeo tradizionale; nella Gran Bretagna ancora alle prese con una Brexit più complessa e lunga del previsto, il traballante governo di Theresa May è una coalizione fra i conservatori e il partito unionista democratico (Dup) dell’Irlanda del Nord; infine, la Spagna appena andata alle urne per rinnovare il Parlamento sta per confermare il socialista Sánchez come primo ministro (tuttavia, i numeri sono risicati, perchè il Psoe, pur vincitore delle elezioni, ha appena il 28,7% dei voti – ben lontano dai tempi d’oro di González – e 123 seggi su 350: la formazione del nuovo Esecutivo sarà laboriosa).
I cinque “grandi” soci dell’Ue sono dunque governati da leader di ispirazioni politiche diverse (socialisti in Spagna, popolari in Germania, liberali in Francia, conservatori in Gran Bretagna, giallo-verdi in Italia) e sono quasi tutti in bilico: la May più di tutti, forse anche il nostro Conte, mentre Sánchez deve ancora ricevere il placet parlamentare; più tranquilli (se così si può dire) sono la Merkel (con i socialisti in difficoltà, i Verdi che avanzano, l’estrema destra dell’Afd che può tentare l’elettorato moderato che per decenni è stato fedele ai democristiani; inoltre la Cancelliera non ha più la guida del suo partito, quindi certo non è forte come un tempo) e Macron (che nei sondaggi relativi al gradimento personale non va affatto bene, senza contare che la battaglia dei “gilet gialli” non è finita, con quel che ne consegue).
Insomma, nell’Europa che vota il 26 maggio i governi non sono “in forma” e i grandi partiti neppure (forse neanche quelli anti-establishment, che potrebbero ottenere buoni risultati ma non entrare nella coalizione che, sull’asse franco-tedesco-spagnolo, governerà l’Europa, conquistando solo qualche esponente nazionale nella Commissione europea – come l’italiano, che forse finirà per rappresentare, insieme a pochi altri suoi colleghi, l’opposizione ad un’eventuale alleanza antisovranista fra i grandi partiti).
Il motto dell’Unione Europea è “Unita nella diversità”, ma da domenica prossima in poi sarà duramente messo alla prova, perché la diversità c’è già (e ce ne sarà verosimilmente molta di più) ma l’unità è più un traguardo da raggiungere faticosamente che qualcosa da dare per scontato.