Se i dati di Poll of Polls fossero confermati, alle europee 2019 i primi quattro classificati avrebbero l’84% dei consensi dei votanti, esattamente come alle europee del 1984. In altre parole l’esposizione mediatica dei principali leader e l’esigenza di semplificazione avvertita dall’elettorato stanno creando un mercato “chiuso” nel quale chi ha un giorno il 40% può ritrovarsi al 18% (il Pd 2014-’18) e chi ha il 6% può salire verso il 30 (Lega)
di Luca Tentoni
Il sistema politico italiano è passato, già all’inizio di questo decennio, dalla polarizzazione intorno a due leader (Berlusconi e Prodi, ma più in generale i capi di centrodestra e centrosinistra) alla riunione dell’elettorato intorno a tre o quattro personalità (e partiti) principali.
Nel 2013, M5S, Pd, Pdl e Scelta civica hanno ottenuto l’80,9% dei voti per la Camera, una percentuale non distante dalla media dell’82,2% che Dc, Pci, Psi e Msi ebbero nel decennio 1979-1989 (politiche ed europee). In pratica, meno di un votante su cinque sceglie, da allora, altri partiti. O, meglio, già dal 2008-2009: però, alle politiche del 2008 c’erano due liste (Pd e Pdl) figlie dell’accorpamento di più soggetti esistenti (ecco perché i primi quattro raccolsero l’84,5% contro il 74,5% delle politiche di due anni prima).
Tuttavia, l’idea della “vocazione maggioritaria” (con i due alleati – Lega per il Pdl, Idv per il Pd – a fare da scelta di riserva per l’elettorato di coalizione desideroso di cambiare voto “restando in famiglia”) non sarebbe bastata per mutare a lungo il comportamento dell’elettorato.
Già alle europee del 2009, infatti, col crollo del Pd (compensato solo in parte dal successo dipietrista) i primi quattro ebbero il 79,6%. Ma qualcosa era successo. Gli italiani ricominciavano a preferire i partiti più grandi, scegliendo però un registro diverso rispetto alle abitudini della Prima Repubblica. Dagli anni Cinquanta fino a tutti i Novanta, infatti, l’ordine d’arrivo dei primi quattro era pressoché fisso (tranne qualche eccezione per il quarto): prima la Dc, poi il Pci, poi i socialisti, infine il Msi. I voti, insomma, si aggregavano intorno a partiti identificati con aree politiche ben precise: il centro (Dc), la sinistra (Pci), la destra (Msi), la sinistra riformista (Psi).
Trenta e più anni fa, i rapporti di forza non cambiavano mai. Si era fedeli al partito, cioè a qualcosa che resisteva al mutamento e alle vicende personali dei leader: al centro di tutto c’era “l’Idea”, l’appartenenza ad una comunità di valori. Poi arrivò Tangentopoli e la nuova offerta partitica della Seconda Repubblica: un’offerta che spingeva gli italiani a stare da una parte o dall’altra (i due poli) ma che offriva coalizioni enormi ed eterogenee, fatte di tanti partiti per accontentare ogni gusto ed orientamento.
Nel 2006, centrodestra e centrosinistra lasciarono ai partiti non coalizzati meno dell’1% dei voti, ma si presentarono con ben 25 liste (13 per Prodi, 12 per Berlusconi): infatti le quattro più votate ebbero solo il 67,4% dei consensi (contro il 99% dei due poli). Il primo quindicennio del nuovo sistema, insomma, puntava a riunire tanti soggetti intorno al leader (l’unica cosa che contava). La “vocazione maggioritaria” del 2008 avrebbe dovuto accentuare questo fenomeno, unendolo però alla riduzione dei partiti alleati: invece, per l’eterogenesi dei fini, suscitò negli italiani la voglia di semplificare la giungla delle sigle e delle liste, ma nel contempo – nel giro di due anni, fra il 2011 e il 2013 – il bipolarismo saltò. Si moltiplicarono i leader (ancora Berlusconi e Bersani, ma affiancati da Grillo e Monti) e le grandi corazzate del sistema furono duramente colpite. Il risultato, tuttavia, fu sorprendente: i primi quattro del 2013 ebbero l’1,3% dei voti in più dei primi quattro del 2009 e solo il 3,6% in meno del 2008.
Fu allora che si avviò una sorta di “terzo tempo” della Repubblica: dal primo (’53-’89) fatto di tre-quattro partiti forti (con lo stesso ordine d’arrivo in graduatoria) al secondo (’92-2006) guidato da due leader e miriadi di gruppi, fino al nuovo, con quattro personalità politiche (Salvini, Di Maio, Zingaretti, Berlusconi) e altrettanti partiti-guida, di gran lunga più votati degli altri (soprattutto i primi tre) ma con un’altissima volatilità elettorale (il primo di oggi può essere il quarto di domani; nulla è scontato, cambia sempre tutto, in fretta). Così, agli altri sono rimaste le briciole: solo il 15% alle europee 2014 (dal quinto in giù), il 17,2% alle politiche 2018 e oggi, stando alle medie del sito Poll of Polls, il 16% alle europee del 2019.
Se i dati di Poll of Polls fossero confermati, il 26 maggio i primi quattro classificati avrebbero l’84% dei consensi dei votanti, esattamente come alle europee del 1984 (contro l’85% di quelle del 2014, sebbene con un’enorme differenza nei rapporti di forza fra i partiti). In altre parole, l’esposizione mediatica dei principali leader e l’esigenza di semplificazione avvertita dall’elettorato stanno creando un mercato “chiuso” nel quale chi ha un giorno il 40% può ritrovarsi al 18% (il Pd 2014-’18) e chi ha il 6% può salire verso il 30 (Lega).
Chi resta fuori, però, non si divide più il 30-35% dei voti come negli anni novanta e fino al 2006, ma appena il 15-16%. Se, come pare, il voto del 26 maggio confermerà la tendenza, il mutamento avviato nel 2008-2013 sarà consolidato.