Dalle amministrative (con referendum) del 2011-’12 alle primarie 2012 del centrosinistra, dalle politiche 2013 alle nuove primarie Pd fino alle europee 2014, per proseguire con le regionali del 2015, le amministrative e il referendum costituzionale del 2016, per giungere agli appuntamenti elettorali locali del 2017 e alle politiche del 2018: l’Italia mobilitata al voto
di Luca Tentoni
A poche settimane dalle elezioni europee la dialettica fra le forze di governo (in particolare) e fra maggioranza e opposizione sembrano del tutto conformi al clima usuale delle battaglie per gli appuntamenti politici nazionali.
In realtà, l’idea di una “campagna elettorale permanente” non è nuova, perché siamo “mobilitati” da almeno otto anni: dalle amministrative (con referendum) del 2011-’12 alle primarie 2012 del centrosinistra, dalle politiche 2013 alle nuove primarie Pd fino alle europee 2014, per proseguire con le regionali del 2015, le amministrative e il referendum costituzionale del 2016, per giungere agli appuntamenti elettorali locali del 2017 e alle politiche del 2018 (seguite da numerose elezioni regionali a cadenza quasi bimestrale: la prossima è fissata per il 24 marzo in Basilicata) si arriva al voto del 26 maggio 2019 per il rinnovo degli europarlamentari europei e per le regionali piemontesi (senza contare che subito dopo avremo anche le amministrative nei comuni). Votazioni spesso parziali, relative a parti del territorio nazionale o consultazioni “di secondo ordine” (cioè, per semplificare molto, non considerate dagli elettori e dai partiti decisive e mobilitanti come le politiche) sembrano susseguirsi in un calendario che conosce poche soste; frattanto, ogni settimana più istituti demoscopici rilevano le intenzioni di voto degli italiani.
In pratica, i voti virtuali (i sondaggi) fotografano situazioni che nel giro di poco tempo vengono messe alla prova dei voti “veri” (le elezioni locali); le votazioni amministrative, poi, vengono proiettate su scala nazionale dando l’occasione per un confronto con i sondaggi che, puntuali, arriveranno nel giro di qualche giorno dal “test” regionale o comunale.
Un flusso continuo, che da un lato può servire alle forze politiche per esercitare un monitoraggio dell’effetto mediatico delle politiche (di maggioranza e di opposizione, ma anche dei differenti modi di porsi e posizionarsi dei due partiti del governo giallo-verde), ma dall’altro finisce per condizionare le mosse degli attori politici.
In alcuni casi, si evita accuratamente di far coincidere nello stesso giorno appuntamenti importanti (manifestazioni, elezioni primarie, annunci di governo, iniziative dei partiti) proprio perché nessuno vuol sprecare l’occasione mediatica che ha creato: non si tralascia nulla, pur di guadagnare o di non perdere voti (più virtuali che reali, vista la maggior frequenza dei sondaggi rispetto alle elezioni).
L’orizzonte, così, diventa non il breve periodo (che è già ben distante dal medio-breve della Seconda Repubblica e il medio-lungo della Prima), ma il brevissimo. Non solo abbiamo un’offerta politica “à la carte”, modellata sui gusti dell’elettore-consumatore, ma anche “prêt à manger”.
È come se, dall’epoca dei grandi vini per i quali necessitava un lungo riposo, si sia passati al consumo dei soli novelli (anche se i buoni vini, di ogni tipo, sono più numerosi delle buone politiche e dei leader efficaci). Il problema è che lo stesso vale per i leader politici e per i programmi (non parliamo di ideologie o semplicemente di ideali, altrimenti sconfiniamo in prospettive che richiedono “decantazioni” che oggi non sono possibili neanche da ipotizzare).
Altra cosa, rispetto alla mancanza di una visione di medio-lungo periodo e alle riflessioni, ai processi politici lenti e bisognosi di maturazione, è l’arte del rinvio, molto praticata in queste settimane. Con un elettorato estremamente volatile e disposto a “sconfinare”, oltrepassando steccati che un tempo erano invalicabili (nella Prima Repubblica persino con i partiti vicini, nella Seconda con gli altri poli), l’obiettivo è sempre e soltanto giungere nelle migliori condizioni possibili – o limitando i danni – al voto in arrivo.
Si ha, così, quello che la cronaca politica definisce lo “scavallare” (settimane, problemi, tensioni politiche) pur di arrivare alla stazione successiva senza danni. Ma così facendo, il treno della politica è diventato un convoglio che ferma ad ogni stazione, dove i passeggeri attendono la prossima tappa e, subito dopo, le interminabili successive, in un viaggio lungo e noioso verso una meta sconosciuta.
La stessa campagna elettorale per le europee – sia pure ammantata di tesi non sempre plausibili o condivisibili, come quella secondo la quale un determinato robusto ed eclatante esito del voto in Italia possa da solo far tremare l’Ue e addirittura imprimerle una brusca sterzata – parla un po’ d’Europa, ma guarda molto, troppo, a Roma. Che cosa si attendono i partiti, infatti, al di là delle dichiarazioni su cosa faranno all’Europarlamento (in gruppi ancora da scegliere o da costituire o da rifondare, talvolta), se non di ottenere un buon ricostituente?
La Lega spera di andare oltre il 30%, per rendere anche formalmente effettiva la posizione di dominus che Salvini già esercita sul governo (con qualche pausa dovuta alla necessità di non affossare troppo l’alleato pentastellato prima di averne svuotato i consensi già di destra).
Il M5S – che di certo farà come in Sardegna, invitando tutti ad operare un raffronto con le analoghe elezioni del 2014, cioè le disastrose europee, quando i Cinquestelle ebbero il 21% – proverà ad avvicinarsi al 25% delle politiche del 2013, avendo scarse possibilità di confermare il 32% del 4 marzo 2018.
Forza Italia, in declino dal 21% del 2013 al 17% scarso del 2014, fino al 14% del 2018, cercherà a tutti i costi di mantenersi almeno al 10%, pena la subalternità definitiva (che passerebbe per subire patti “leonini” pur di rifare in futuro il centrodestra) alla Lega salviniana.
Fratelli d’Italia, dal canto suo, cercherà di coltivare quella quota fra il 4 e il 5% che fu per decenni del Msi, provando a dar vita, dopo le elezioni, ad una sorta di aggregazione con tutti coloro che (in FI e altrove) non vogliono il vecchio assetto della CDL ma desiderano un nuovo polo di destra che affianchi la Lega alle prossime politiche.
Verdi, Più Europa e altre formazioni europeiste, più la sinistra radicale, attendono il voto del 26 maggio per pesarsi e decidere nuove strategie.
Infine, il Pd di Zingaretti deve cercare di riprendersi almeno il 18,8% delle politiche dello scorso anno per rimettersi in cammino dopo dodici mesi perduti in una riflessione sul voto del 4 marzo che in certi casi – almeno fino a poche settimane fa – è stata timida o tardiva e in altri casi neppure si è seriamente avviata (forse perché, secondo alcuni, gli elettori non hanno capito; del resto, si sa, è facile dire che il destino “è cinico e baro”).
Come si vede, sono tutti obiettivi nazionali, con all’orizzonte elezioni anticipate già nel 2019 non più impossibili (anche se – attenzione – non certe). Intenti ad attendere la prossima fermata (quella del 26 maggio) i partiti pensano a Roma, al presente o ad un futuro molto prossimo (la stazione successiva: il voto anticipato?), forse anche perché il convoglio procede nella nebbia, verso una destinazione ignota.