Secondo l’Ipsos la “luna di miele” è trascorsa, forse più per i pentastellati che per i leghisti. Fatto è che oggi, in quel quinto di elettori che non andrebbe alle urne, rispetto a dieci mesi fa (l’affluenza stimata è al 56,8% contro il 70,6%) non sono rappresentati uniformemente i votanti di tutti i partiti
di Luca Tentoni
Il sondaggio Ipsos pubblicato il 19 gennaio dal “Corriere della Sera” offre più spunti di riflessione, in vista delle elezioni europee. In primo luogo, l’analisi (e la nostra rielaborazione) di tutte le rilevazioni compiute dall’istituto di ricerca evidenzia come fino a ottobre l’indecisione degli intervistati sul voto e l’espressa intenzione di non andare ai seggi – attestata fra il 33 e il 35% del corpo elettorale – sia notevolmente aumentata con l’approvazione della legge di bilancio, arrivando a metà gennaio al 43,2%, in parallelo con un forte ripiegamento (dal 28,7% della rilevazione del 31 ottobre al 25,4% di quella attuale) del M5S, al quale non ha fatto riscontro un aumento di pari misura del consenso alla Lega (pur aumentato dal 34,7% al 35,8%).
In rapporto all’intero elettorato, i voti al M5S, che il 4 marzo 2018 erano stati pari al 23,1% (32,7% dei votanti) erano a ottobre il 18,5%, mentre oggi sarebbero il 14,4%; quelli della Lega costituivano il 12,3% degli aventi diritto al voto (politiche), in ottobre erano saliti al 22,3% mentre a gennaio sono scesi al 20,3%. In pratica i consensi ai due partiti di governo sarebbero passati dal 34,4% del corpo elettorale (marzo ’18) al 40,8% in ottobre, per tornare a gennaio al 34,7% (si tratta di “voti virtuali”, ovviamente). Si può ipotizzare che la “luna di miele” sia trascorsa, forse più per i pentastellati che per i leghisti. Fatto è che oggi, in quel quinto di elettori che non andrebbe alle urne, rispetto a dieci mesi fa (l’affluenza stimata è al 56,8% contro il 70,6%) non sono rappresentati uniformemente i votanti di tutti i partiti. Forza Italia, ad esempio, passerebbe dal 14% al 7,1% dei voti validi, scendendo però dal 9,9% del corpo elettorale al 4% (-60%). L’andamento dei vecchi poli è un altro elemento di un certo interesse.
Secondo Ipsos, il centrosinistra non pagherebbe molto il clima di incertezza del Pd, passando dal 22,9% dei voti validi al 21,5%; in realtà, in termini reali, scenderebbe dal 16,2% degli aventi diritto al 12,2%, perdendo un elettore su quattro. Così, come si diceva, i Cinquestelle scenderebbero dal 32,7% al 25,4% (perdendo il 7,3%, cioè circa un quinto) ma, in valore assoluto, precipiterebbero dal 23,1% al 14,4% (-8,7% ma circa -38% in voti validi).
I dati più rilevanti, però, riguardano il centrodestra, che salirebbe molto in percentuale (dal 37 al 46,9%) ma di pochissimo in termini di voti (lo 0,5% del corpo elettorale, cioè meno di 250mila unità). Nell’ex CDL si assiste ad un fenomeno di vasi comunicanti: la Lega guadagna l’8,1% dell’elettorato (in termini assoluti) mentre FI, FdI e centristi perdono il 7,6%. Se il 4 marzo 2018 solo il 47% dei voti del centrodestra erano di Salvini, oggi la percentuale salirebbe – secondo i dati Ipsos che abbiamo esaminato e ricalcolato – al 76%. Questo depauperamento degli alleati a favore della Lega è verosimilmente il motivo che ha spinto Berlusconi a candidarsi alle europee, sperando di arginare il calo “azzurro”.
C’è infine una questione territoriale. Facendo qualche proiezione territoriale sui dati del sondaggio (un’operazione che va presa con moltissima cautela, ma che almeno segnala alcune tendenze generali) si osserva che – in termini percentuali, non di voti assoluti – il centrodestra sembra tornato, nel Nord-Ovest, ai livelli del 2008, mentre nel Nord-Est è andato più su (fino alle percentuali dell’alleanza del 2001-2006, comprendente anche il Ccd-Cdu prima e l’Udc poi) così come nelle regioni rosse (dove il centrodestra è oggi molto competitivo sia per aver recuperato percentuali “antiche”, sia per lo sfaldamento del centrosinistra). Un discorso molto diverso, invece, riguarda le regioni del Centrosud e delle Isole, dove la CDL era al 50% ma oggi appare poco oltre il 40% (in questo caso, ciò è dovuto al dato ancora rilevante del M5S, molto superiore rispetto a quello del 2013, anche se inferiore a quello del 2018).
In quanto al centrosinistra, l’erosione di consensi rispetto alle politiche dello scorso anno e alle serie storiche sembra più marcata nelle regioni rosse, le quali sono oggi un terreno dove i tre poli principali hanno più possibilità di dar vita ad una competizione aperta (il Nord, infatti, vede la prevalenza del centrodestra, mentre il Sud è bipolare, perché il centrosinistra meridionale appare debole).
Naturalmente le nostre sono considerazioni basate su proiezioni e rielaborazioni di voti “virtuali” (quelli dei sondaggi), ma l’impressione è che le tendenze di fondo siano due: l’uscita (temporanea, forse) di una parte dell’elettorato pentastellato, in direzione dell’astensione; la redistribuzione dei voti del centrodestra ad esclusivo e marcato vantaggio della Lega. Se, dunque, il M5S deve accentuare il suo carattere originario per recuperare quanti non hanno gradito alcuni aspetti più “di destra” imposti dal “contratto”, la Lega non deve far altro che restare se stessa, ponendosi come unico grande contenitore del campo moderato e della destra (oggi nazionale, non più solo “nordista”).