Con una sentenza figlia dell’inerzia parlamentare la Corte Costituzionale segna un punto di non ritorno in una delicata materia che tocca profili giuridici, etici e politici. Levata di scudi e asce di guerra brandite sia dai Guelfi che dai Ghibellini, tra laicità dello Stato e rispetto della vita umana
Non è punibile (a determinate condizioni) chi agevola il suicidio. È quanto ha sentenziato la Corte Costituzionale dopo 11 mesi di stallo parlamentare sul tema del “fine vita”, vexata questio che ha diviso il mondo politico, giudiziario e cattolico.
Con la decisione giunta al vespro di mercoledì scorso, pronunciamento mai tanto atteso e dibattuto, sarà possibile per chi è tenuto in vita da «trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile» poter scegliere «autonomamente e liberamente» di porre fine al suo calvario, liberando da ogni conseguenza chi materialmente agevolerà la sua dipartita.
Non sarà infatti punibile, ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente affetto da una patologia incontrastabile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
In attesa di un inevitabile pronunciamento dei due rami del Parlamento, teso a disciplinare il tema nel solco di quanto stabilito dai togati del Palazzo della Consulta, il tema del fine vita è giunto così al suo epilogo, confermando l’orientamento che la Corte Costituzionale aveva lasciato intendere circa un anno fa.
Il pronunciamento dei giudici muove dalla questione sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito del processo per la morte di Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo, in cui era coinvolto il radicale Marco Cappato con l’accusa di istigazione al suicidio. A seguito di un grave incidente, infatti, Antoniani rimase paralizzato irreversibilmente e, dopo un tentativo di cura a base di cellule staminali, aveva deciso di mettere fine alle sue sofferenze, chiedendo aiuto proprio al leader radicale. Fu lo stesso Cappato ad accompagnare Dj Fabo in Svizzera, preso la famigerata clinica Dignitas dove, alle 11.40 del 27 febbraio 2017, gli fu iniettato un liquido letale in corpo, spegnendo così la sua esistenza. Al rientro in Italia Cappato si autodenunciò e da li prese avvio il procedimento sino alla richiesta di intervento della Consulta per dirimere il delicato caso.
E di tale questione la stessa Consulta, nella propria Ordinanza n. 207 del 2018, aveva colto taluni elementi di incostituzionalità nell’equiparare il suicidio assistito all’istigazione al suicidio, indicando al legislatore la necessità di differenziare, in qualche misura, le due fattispecie.
In tal modo, nell’Ordinanza in questione, la Corte aveva indicato le condizioni di non punibilità del suicidio assistito, vale a dire che il paziente soffra di una patologia irreversibile che gli determini sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili e, secondo aspetto, che tale grave invalidità gli permetta di sopravvivere solo attraverso trattamenti di sostegno vitale, non compromettendo mai la sua capacità di prendere decisioni libere e consapevoli.
Con questo ultimo pronunciamento, dunque, la Corte presieduta da Giorgio Lattanzi ha sciolto il quesito sul reato di aiuto al suicidio e sul profilo di incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale. Norma, questa, il cui contenuto punisce sempre e comunque qualsiasi azione agevolatrice dell’estremo gesto altrui; dunque anche quella di chi, impietosito da un malato grave che insistentemente chiede di morire, ne esaudisce le volontà.
Il che ora prelude a una revisione del citato art. 580 e, con ogni probabilità, a un’accelerazione sul versante del Parlamento che per lungo tempo, tra divisioni e ribaltoni di Governo, ha rinviato la sua azione legislativa sul tema.
È scontata, invece, la presa di distanza da parte della CEI che, dal canto suo, ribadisce la visione secondo cui l’eutanasia non potrà mai essere una scelta libera bensì una soluzione sbrigativa. «Si può e si deve respingere» – scrive la presidenza dei Vescovi italiani facendo proprie le parole del Papa – «la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia».
A chi sopravvivrà l’ardua (e nuova) sentenza.