Le grane per Facebook non finiscono mai. Appena mercoledì scorso il procuratore generale del Distretto della Columbia, Karl Racine, ha citato a giudizio l’amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, in una causa riguardante la mancata protezione dei dati personali dei consumatori da parte del popolare social nell’affaire Cambridge Analytica.
Nel marzo 2018 una società londinese chiamata, appunto, Cambridge Analytica (un’azienda di analisi dei dati) ha raccolto informazioni personali da oltre 50 milioni di profili Facebook senza nessuna autorizzazione. Scopo di questa vasta campagna intrusiva quella di costruire un sistema capace di formare o indirizzare le opinioni politiche degli elettori statunitensi, personalizzando i messaggi politici in base al profilo psicologico di ognuno, analizzando e combinando proprio le informazioni presenti sui profili Facebook dei malcapitati.
Il meccanismo per la raccolta fraudolenta dei dati era molto semplice: per utilizzare a talune applicazioni, l’utente poteva scegliere di creare un nuovo account (operazione certamente più lunga che poco si concilia con la frenesia la velocità tipica del web) oppure poteva accedere con le proprie credenziali utilizzate su Facebook (una pratica comune, chiamata social login), soluzione molto più comoda e immediata. Un’operazione subdola e sottile, che ha permesso a dei soggetti esterni di impadronirsi delle informazioni personali di ignari navigatori (età, sesso, gusti, like ecc…) così da produrre dei messaggi capaci di orientare le scelte degli utenti.
Il procuratore Racine ha affermato che le indagini hanno rivelato come Mark Zuckerberg abbia svolto un ruolo molto più attivo nell’affare di quanto dichiarato originariamente. A questo punto, se il processo confermerà le imputazioni, il social potrà essere costretto a sborsare sino a 5.000 dollari di risarcimento per ognuno dei 300.000 residenti del distretto, a causa proprio dell’atteggiamento connivente nella violazione della riservatezza dei suoi utenti da parte di Cambridge Analytica. La citazione depositata dalla procura accusa Facebook di aver ingannato i consumatori sulle norme privacy, consentendo a Cambridge Analytica di ottenere dati sensibili da oltre 87 milioni di utenti, tra cui più della metà residenti in Columbia.
Nel giugno 2019, il tribunale ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dal social network, dando così il via ad una lunga istruttoria, iter che ha previsto anche numerosi interrogatori di ex dipendenti.
Il Procuratore ha affermato che le indagini hanno dimostrato come, nel 2010, una modifica della piattaforma abbia consentito a centinaia di sviluppatori di terze parti l’accesso gratuito ai dati degli utenti di Facebook, con il beneplacito di Zuckerberg. Tra queste terze parti c’era anche un accademico che, successivamente, ha consegnato i dati estratti dal social a Cambridge Analytica. Insomma, secondo le indagini, Facebook era a conoscenza che i dati personali dei suoi iscritti erano finiti nelle mani di Cambridge Analytica, ma non ha rivelato la violazione della privacy di tali informazioni per più di due anni.
La società ha decisamente negato tutte le accuse, affermando di non aver ingannato i suoi utenti in relazione alla privacy dei dati. La decisione di aprire la piattaforma a terzi nel 2010 è stata pubblica.
“Queste accuse sono infondate oggi come lo erano più di tre anni fa, quando la Procura distrettuale ha presentato la sua denuncia“, ha affermato Andy Stone, portavoce di Facebook. “Continueremo a difenderci con forza e a concentrarci sui fatti” è stato il commento, lapidario, a Menlo Park.