Quest’estate non porterà con sé soltanto il consueto carico di aspettative che caratterizzano la “bella stagione”. Agli agognati momenti di relax vacanzieri, ai nomadismi giovanili, agli amori intensi e fugaci e a tutto quanto quel battito di ciglia intenso e al contempo spensierato che vorrebbe essere l’estate comporterà, si potrebbe aggiungere dell’altro.
Un ritrovato senso di sollievo collettivo, con l’incubo pandemico che volge al termine e restituisce una vera prospettiva di serenità. Al di là degli auspici e, di pari passo, degli scongiuri, l’estate 2021 non dovrà essere un’estate da cicala come la precedente, bensì la stagione che getta le basi di una ripartenza solida e duratura per il Paese nel suo complesso.
I segnali sembrerebbero esserci: con la complicità dell’avanzamento sostenuto della campagna vaccinale e la ripresa delle attività produttive, anche il Presidente Mario Draghi ha allentato il nodo della cravatta e iniziato a respirare. L’industria è tornata ai livelli pre crisi, BankItalia conferma una robusta ripresa per la seconda parte dell’anno e, anche Istat, stima una possibile chiusura d’anno in terreno positivo, anche di 5 punti, per il PIL.
Se le stelle saranno allineate dunque, potrebbe davvero archiviarsi la lunga fase di crisi e aprirsi quella di ricostruzione. Un bene per cittadini e imprese stremati dall’emergenza e una sfida per le forze politiche per ritrovare una dimensione propositiva, fuori dagli alterchi che la pandemia ha permesso più del solito.
Draghi, sin dai primi momenti del suo insediamento, aveva parlato chiaro: gestita l’emergenza è tempo di riforme. Ed ecco che per i partiti si apre l’esame di maturità ma la scelta delle materie si è già mostrata ostica: su pensioni e lavoro non si è trovata una sintesi, idem sulla giustizia. Così, escludendo l’impossibile, per quanto improbabile, sul campo è rimasta una delle riforme più ardue e lasciate intentante anche da governi sulla carta compatti: quella fiscale.
Un sentiero stretto e da percorrere velocemente: l’iter prevede che al 30 giugno le commissioni parlamentari arrivino con un testo unitario e che il 31 luglio il Governo presenti una legge delega e che, una volta incassato il placet delle camere, passerà a una commissione di esperti per poi attuarsi rapidamente con “uno o più” (leggersi pochi) decreti delegati.
Un sistema legislativo ibrido si potrebbe dire, con il lavoro preliminare decentrato alle commissioni, l’affinamento del Governo, e la validazione ex post delle Camere. Andando oltre i tecnicismi quel che è certo è che le forze parlamentari non potranno lamentarsi di forme di autoritarismo dell’Esecutivo che ha scelto di rispettare la sacrosanta suddivisione dei poteri e riportare le discussioni di legge in un terreno collegiale, lontano dai Dpcm.
Tutto molto bello e in odore democratico, un mix che dovrebbe spingere i partiti a fare rapidamente sintesi e redigere un testo condiviso, almeno negli intenti. E invece nulla di più lontano da questo desiderata molto utopico, considerato che, al momento non si è stati capaci di trovare convergenze nemmeno all’interno degli stessi schieramenti. Tutti vorrebbero ridare potere d’acquisto al ceto medio, riducendo la pressione fiscale e ragionando dunque prima di tutto su una riforma dell’Irpef.
Tuttavia, partendo da sinistra, Leu vuole introdurre il modello tedesco, con una “no tax area” fino a 9mila euro di reddito e poi aliquote variabili da calcolare tramite una funzione matematica che garantisca prelievi progressivi; il PD è per il taglio del differenziale tra il secondo e il terzo scaglione ovvero, riducendo il divario tra chi guadagna tra i 15 e i 28mila euro e chi incassa tra i 28 e i 55 mila; riduzione a tre aliquote per il Movimento 5 Stelle fino ai 55 mila euro e poi non sa/non risponde. Tre aliquote anche per Forza Italia ma tra i 25 e i 65 mila euro di reddito, poi liberi tutti. La Lega porta la materia a piacere, ovvero flat tax, con la variante flat tax incrementale e, nel dubbio, l’introduzione di un regime forfettario dal 20% per le partite IVA fino a 100mila euro.
Doverosa parentesi: l’Irpef è la prima imposta per gettito fiscale, che vale circa 170 miliardi di euro, senza la quale le casse dello Stato non avrebbero neanche gli occhi per piangere. Tutte le proposte di cui sopra hanno dunque le gambe e anche calzoncini corti, anche considerando che nessuno ha affrontato il tema risorse.
La Lega non vuol sentire parlare di altre tasse e liquida così la faccenda preparando i gavettoni per l’ultimo giorno di scuola; i Cinque Stelle propongono di lavorare sulle tax expenditures che però valgono milioni e non miliardi, dimostrando di avere poca dimestichezza non solo con la macro economia ma anche con le equivalenze da terza elementare; Forza Italia, in uno slancio di coerenza che quasi commuove, ritorna sull’idea di una pace fiscale per tutto il 2021 e chissà, anche per il futuro, fino a un azzeramento del magazzino fiscale. Da ultimo, il PD con il suo segretario Enrico Letta, ha proposto una patrimoniale nobilissima negli intenti, ma pessima nella narrazione del suo racconto.
Il sistema tributario italiano ha circa 50 anni, a suo tempo fu rivoluzionario, ma ora sconta il peso delle troppe primavere e risulta alquanto farraginoso e poco efficace. L’impianto va indubbiamente rivisto ma se questo vuole essere il fischio di inizio del grande partita delle riforme forse è il caso di non scendere neanche in campo.
Ci sarà tempo, suvvia.
Stefano Gianuario