A cura di Angelo Gardella, commercialista*
La capacità contributiva è un principio cardine su cui si fonda il prelievo fiscale. E’ sancito dall’art. 53 della nostra carta Costituzionale secondo il quale “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. La dottrina e la giurisprudenza hanno scritto fiumi di parole sul tema, giungendo spesso a conclusioni contrastanti.
Preliminarmente occorre chiarire la differenza fra imposte e tasse. La definizione comunemente adottata dal nostro ordinamento giuridico è che le prime sono somme di denaro che il contribuente deve obbligatoriamente versare allo Stato in funzione della sua capacità contributiva. Le seconde sono somme di denaro che il contribuente versa allo Stato in cambio di uno specifico servizio.
Il concetto è chiaro, “capacità contributiva” sta a significare la capacità di ogni cittadino di “contribuire” alla spesa pubblica, in altre parole di pagare una somma di denaro attraverso le ben note imposte e tasse per finanziare le spese Statali. Da qui il termine “contribuente”. Non vi è quindi dubbio che la capacità contributiva, per sua natura, è necessariamente connessa ad un reddito che si manifesta con entrate di denaro. In assenza di entrate non c’è capacità contributiva.
Ma questo concetto, per quanto ovvio, per qualcuno sembra di difficile comprensione. Infatti, spesso il fisco italiano ha una strana concezione della capacità contributiva. Basti pensare all’Imu (imposta municipale propria) di tipo patrimoniale poiché colpisce gli immobili ed è dovuta sulla base del solo possesso e non in funzione di una effettiva capacità contributiva come richiede l’art. 53 della nostra Costituzione.
L’Amministrazione finanziaria, evidentemente, considera manifestazione di capacità contributiva il semplice possesso di un immobile, anche se non produce reddito e quindi entrate, anzi anche se, come spesso avviene, il possesso comporta solo spese e quindi esborsi. Il possessore di tali beni ha sborsato imposte, spesso salate, in occasione dell’acquisto, (registro o iva, ipotecarie, catastali ecc.), dovrà pagare imposte sul reddito se il bene produce una rendita e pagherà altre imposte in sede di cessione sulla eventuale plusvalenza e l’acquirente sarà tenuto a pagare le imposte indirette (iva, registo ecc). Lo stesso bene sconta imposte a raffica.
Ma non basta. A questo si aggiunge l’Imu, uno degli esempi più perversi di imposta irrispettosa del dettame Costituzionale. È un’imposta che il contribuente deve obbligatoriamente pagare per il solo fatto di possedere un immobile indipendentemente dalla sua capacità di produrre reddito. L’Imu è quindi una patrimoniale pura totalmente disancorata dalla reale capacità contributiva.
La conseguenza è che il possessore, per pagare l’imposta Imu, dovrà attingere da altri redditi, ovviamente già tassati, e in assenza o insufficienza dei quali si ritroverà tra capo e collo un accertamento esecutivo che si concluderà inevitabilmente con la perdita del bene a seguito di riscossione forzata: un vero esproprio di Stato.
Appare quindi evidente l’illegittimità dell’Imu stante il netto contrasto con la nostra carta costituzionale oltre che con i più elementari principi di buon senso, poiché è un prelievo forzoso che viola il principio della capacità contributiva.
Questo è solo uno dei tanti esempi di pessima abitudine di legiferare “contra legem”, una prassi che contribuisce a innescare una crescente intolleranza verso la Pubblica Amministrazione. Ci si augura che l’Esecutivo non perda l’occasione della riforma fiscale in cantiere per dare un timbro di legalità al sistema e ripristinare la tanto auspicata equità in nome di un nuovo rapporto fiduciario fra Stato e contribuente.
Come comportarsi allora di fronte a un prelievo ingiusto come l’Imu? Le soluzioni sono abbastanza semplici: o si contesta la pretesa tributaria non pagando all’origine l’imposta e in caso di accertamento aprire un contenzioso tributario, oppure, soluzione consigliabile per non incorrere in sanzioni in caso di soccombenza nel giudizio, pagare l’imposta e chiedere il rimborso. Il diniego al rimborso o il silenzio della Pubblica Amministrazione potrà essere impugnato in Commissione Tributaria, avviando in tal modo il contenzioso.
*Coordinatore Centro Studi “Le Partite iva”