La prima sfida che attende il nuovo Governo è quella di avviare un dialogo con chi guida la macchina amministrativa, pena la paralisi.
Comunque vada la formazione del nuovo esecutivo una cosa è certa: il potere degli uffici continuerà a vegliare sui nuovi governanti, a volte supportandoli nelle decisioni, tramutando in atti e provvedimenti i loro desideri e, altre volte, tenendo sotto ostaggio qualsiasi proposito o ambizione della nuova classe di governo.
Il fatto che i grandcommis di stato rappresentino il vero snodo di ogni decisione politica è pacifico. Ma mai come nell’ultimo periodo, il peso della burocrazia è stato così forte sulle decisioni degli organi rappresentativi, giungendo a bloccare diverse iniziative pensate e fortemente volute dagli ultimi parlamenti.
È il caso dei famosi “ricorsi al TAR”, forche caudine allo stesso tempo giudiziarie e amministrative, a cui ogni provvedimento controverso è sottoposto. Memorabile il “no” ai direttori stranieri nei musei italiani, riforma fortemente voluta dal Ministro Franceschini ma vanificato in un nulla di fatto in un’aula di Palazzo Spada. Certo – si dirà- i tribunali applicano la legge, anche se questa si ritorce contro chi la scritta.
Scrivere delle buone leggi non è, come si crede, compito soltanto dei parlamentari, ma anche di un nutrito gruppo di burocrati a cui vengono demandati i compiti di supervisione legale, pareri e giudizi che possono far finire nel cestino la migliore delle intenzioni. Il più delle volte tali interventi mettono al sicuro, invece, interventi politici che, senza ulteriore affinamento, esporrebbero il fianco a possibili criticità, e a pagarne le spese sarebbero i cittadini. Ma comunque, l’ultima parola spetta a loro.
Ha fatto discutere la sentenza del Consiglio di Stato del 30 gennaio scorso, relativa al divieto di tenere corsi di laurea interamente in lingua inglese al Politecnico di Milano: il piano didattico così congeniato discrimina gli studenti italiani che ignorano la lingua di Sua Maestà, con buona pace dell’internazionalizzazione dei nostri percorsi di studio.
Ma le burocrazie – non solo quelle giudiziarie – sono sempre vigili e in agguato, lavorando tanto sui temi presenti che su quelli futuri. Un prossimo filone, ancora tutto da scrivere, è la rivoluzione che riguarda l’introduzione delle tecnologie c.d. 5G, ovvero il complesso (e rivoluzionario) sistema di trasmissione mobile che trasformerà le nostre vite: entro il 2020 oltre 50 miliardi di oggetti saranno in grado di connettersi tra di loro, dalle automobili senza guidatore ai sistemi di monitoraggio sanitario. Già qualcuno evidenzia diversi problemi di privacy legati all’uso abnorme di dati personali che tali dispositivi necessitano per funzionare, con tutti i possibili intoppi e arresti alla ricerca e allo sviluppo. Anche in questo caso, il boccino non è in mano alla politica quanto ai tecnici – burocrati naturalmente – che devono avallare o meno, in punta di diritto si intende – le innovazioni.
“Se hai un problema con un pubblica amministrazione cambia problema”, è il mantra che si ripete in ogni stanza di Palazzo. Invano la politica ha cercato di riformare il potere burocratico. Il riordino della P.A., avviato con fatica dal Ministro Madia, stenta a decollare. L’anagrafe unica, ad esempio, è in ritardo, e lo SPID, nato come strumento cardine per il dialogo digitale tra il cittadino e la pubblica amministrazione è poco più che una chimera.
Ma non è tutto nero. Accanto a pezzi dell’apparato burocratico c’è un’Italia che, nonostante tutto, funziona, e a dirlo sono i dati del Performance Index dell’Organizzazione mondiale del commercio: secondi per competitività nei settori produttivi dopo la Germania, l’Italia eccelle grazie soprattutto alla qualità della propria manifattura. La quota di mercato nel settore della moda è seconda dietro soltanto alla Cina, primi posti anche per l’esportazione delle macchine industriali e primi in sostenibilità ambientale in campo agricolo. Insomma l’Italia c’è, anche se imbrigliata in mille lacci e lacciuoli, che per essere sciolti, però, hanno bisogno di un potere politico forte capace di affermare il proprio ruolo.