Sì, è un condono. Così il Presidente del Consiglio Mario Draghi, con una semplice frase, ha confermato la sua oculatezza nella scelta delle parole, sottolineato la sua onestà intellettuale e posto fine a discussioni, congetture, tesi e antitesi smontando il lavoro possibile di molti retroscenisti.
Va dunque dato atto a Draghi: il tema dello stralcio delle cartelle esattoriali, tra i protagonisti più chiacchierati del Decreto Sostegni, entrato in vigore negli scorsi giorni, ma ancora in fase di approvazione al Senato per la trasformazione in Legge dello Stato è quello che è, ovvero un condono fiscale.
Nascondersi dietro un dietro non è nello stile del Presidente del Consiglio: troppi e altrettanto delicati i temi sul suo tavolo per perder tempo e giochicchiare con parole per addolcire la pillola. Nessuna “pace fiscale”, “sanatoria”, “rottamazione”; e ancor meno ha optato a immagini forti, come “scudo fiscale”, o ha preferito inglesismi che ben conosce ma mal sopporta, quali “voluntary disclosure”.
Lusinghe linguistiche a cui invece hanno ceduto quasi tutti i suoi predecessori anche perché la storia dei condoni in Italia è più longeva della stessa Repubblica: secondo le stime della Banca d’Italia, nelle varie forme di cui sopra, ne sono stati concessi più di 80 dall’unità nazionale ad oggi.
Una lunga tradizione dunque, con la quale tutti i Presidenti del Consiglio, per pigrizia o con l’intenzione, storcendo il naso o addirittura gioendone, hanno fatto i conti a un certo punto del loro mandato.
Lo scatolone delle foto ingiallite non si apre nel 1861 ma nel 1973, con Mariano Rumor a capo del Governo e un altro democristiano di spicco, Emilio Colombo, titolare dell’allora dicastero delle Finanze: veri e propri progenitori del condono moderno, ovvero dell’impianto utilizzato nel corso degli ultimi cinquant’anni di storia repubblicana. Quella misura, volendo perlustrare le ragioni dell’epoca, andava tuttavia di pari passo con la più importante riforma fiscale dal dopoguerra ad oggi, quella che diede vita all’Irpef e, a suo tempo fu un successo, portando nelle casse dello Stato l’equivalente di 31 miliardi di euro di oggi.
Avanti veloce di un decennio si arriva al Governo Spadolini che, in tandem con il sagace ministro socialista Rino Formica, dà vita al secondo condono nel 1982. Non è da meno Bettino Craxi che, nel corso della sua epopea, riesce anche a piazzare un condono tombale. Nel 1992, ultimo ruggito dell’eterno Giulio Andreotti in coppia con un sempreverde Formica e arriva anche il condono che anticipa la stagione di Mani Pulite. Si apre la lunga stagione berlusconiana e il Cavaliere ne piazza due a distanza ravvicinata, nel 2003 e nel 2009, con l’arguzia del suo uomo dei numeri, Giulio Tremonti, che porta la sanatoria del 2003 ad essere la più redditizia di sempre, con oltre 34miliardi di euro di gettito. Si arriva alla storia recente per scoprire che non farà a meno di condoni anche il rottamatore Matteo Renzi, con la sua voluntary disclosure e l’avvocato del popolo Giuseppe Conte, con il “saldo e stralcio”.
Dal 1970 non vi è stato un “periodo” – difficile addirittura parlare di anni – in cui non è avvenuta una qualche forma di condono. Verrebbe quindi quasi automatico pensare che una misura così tanto diffusa porti indubbi benefici. Non proprio. Secondo uno studio della Cgia di Mestre tutti i condoni varati dal 1973 ad oggi valgono in gettito quanto l’evasione fiscale di un anno, circa 110miliardi di euro.
Nel corso della sua lunga storia il condono ha dunque dimostrato come gli svantaggi siano superiori ai benefici. La prima ragione è presto detta: si incassa meno e dunque si riducono gli introiti; in seconda battuta, comunque la si metta, è un tema delicato che divide l’opinione pubblica tra chi vuole approfittarne e chi si sente fregato, che si traduce nell’antica dicotomia italica che contrappone furbi a fessi da ultimo – e chiaramente non meno importante – è simbolo di resa da parte dello Stato che palesa il suo non funzionamento.
E questo è il viatico per tornare a Draghi e alla sua onestà intellettuale. Il Presidente, dopo aver ammesso che anche il suo Governo avrà il suo condono, ha tenuto a precisare che è uno strumento per proseguire nella lotta all’evasione fiscale ma che occorre riformare urgentemente i meccanismi di riscossione perché pare evidente che qualcosa non stia andando per il verso giusto.
Draghi sa bene dunque che il condono non è la risposta ma forse solo parte di essa e che la via per semplificare i rapporti tra fisco e contribuente e contrastare realmente l’evasione fiscale imperante è attuare una riforma che riscriva completamente le regole del gioco, abbassando le tasse o, ancor meglio uniformarle e alleggerire il numero degli adempimenti. Chissà, se e quando, il pensiero avrà la forza di diventare azione.