Tra il 2015 e il 2016 l’assenza di maggioranze a Madrid portò a un passo dalla celebrazione di 3 elezioni in 12 mesi. Come in Italia, è alta la conflittualità tra i partiti
Come hanno ormai messo in evidenza tutti i commentatori, dopo l’esito del voto del 4 marzo le uniche possibilità per dare un Governo all’Italia nelle prossime settimane passano o dalla scomposizione dei tre blocchi principali del Parlamento (Centrodestra, M5S e Pd) per dare vita a nuove convergenze o dall’unione tra due di questi schieramenti.
Allo stato attuale, tuttavia, considerata l’elevata conflittualità politico-culturale tra gli attori in gioco si prospetta tutt’altro che semplice la risoluzione del rebus, tanto che appare irreale la riproposizione in salsa nostrana di uno scenario come quello della Germania, dove a distanza di 6 mesi dalle elezioni si è concluso l’accordo per una nuova Grosse Koalition. Al contrario, lo stallo cui dovranno ora confrontarsi i partiti italiani ricorda nelle premesse quanto accaduto in Spagna tra il dicembre 2015 e la fine di ottobre 2016, quando una paralisi istituzionale portò per quasi due volte alla ripetizione del voto popolare.
Per una migliore comprensione del quadro, va premesso che negli ultimi anni la politica spagnola ha conosciuto dei cambiamenti radicali, con la fine dell’assetto bipartitico (instauratosi con il ritorno alla democrazia, una volta terminata a metà anni Settanta la dittatura franchista) segnato dall’alternanza al potere tra Partido Popular – Pp di centrodestra e Partido Socialista Obrero Español – Psoe di centrosinistra. Ai due soggetti tradizionali si sono infatti aggiunti Podemos, movimento anti-establishment di sinistra erede delle proteste degli Indignados durante la crisi economica, e Ciudadanos, formazione nata nel 2006 per contrastare gli indipendentisti catalani e che si è poi ritagliata un ruolo nazionale per le sue posizioni liberaldemocratiche ed europeiste.
Le elezioni del 20 dicembre 2015 hanno certificato questa svolta, con Pp e Psoe ridotti ai minimi storici con rispettivamente 123 e 90 seggi, mentre gli emergenti Podemos e Ciudadanos facevano il loro ingresso in Parlamento conquistando 69 e 40 deputati. Dunque, nessuno dei quattro competitor aveva conquistato la maggioranza assoluta di 176 seggi su 350 e già dalle prime consultazioni con il Re emerse uno scenario di veti incrociati, tale da rendere inizialmente impossibile l’affidamento dell’incarico per formare un nuovo Esecutivo.
Il premier uscente Mariano Rajoy (leader del Partido Popular) si disse infatti indisponibile a presentarsi al Congreso de los Diputados in assenza dei numeri per ottenerne la fiducia, e manifestò fin dal primo istante contrarietà all’ipotesi di una coalizione alla tedesca con il Psoe, a sua volta indisponibile a collaborare con il Pp. Di conseguenza, si dovette attendere marzo 2016 per il primo tentativo di sbloccare la situazione, portato avanti dal segretario socialista Pedro Sánchez, che raggiunse un accordo con Ciudadanos e ricevette da Felipe VI il mandato per ottenere il via libera del Parlamento su quell’intesa. Ciò nonostante, la sortita non andò a buon fine perché sostenuta da soli 140 deputati e contrastata da popolari e Podemos (anche tra i nuovi partiti c’è una forte avversione), che rifiutarono di astenersi anche se al solo scopo di far partire la Legislatura.
A quel punto scattò il conto alla rovescia previsto dalla Costituzione iberica, in base alla quale se entro 2 mesi dal fallimento della prima sesión de investidura (l’equivalente delle sedute dedicate dalle Camere italiane al voto di fiducia sul nuovo Governo) il Congresso non riesce a designare un Presidente del Consiglio, il Parlamento viene sciolto automaticamente. Dal momento che nessun altro decise di seguire l’esempio di Sánchez, la Spagna fu richiamata alle urne il 26 giugno 2016.
A dispetto dei sondaggi, dalla seconda tornata elettorale emerse un risultato simile a quello di 6 mesi prima: i popolari risalirono di poco fino a 137 seggi, i socialisti scesero ulteriormente a 86 deputati, mentre Podemos (che nel frattempo aveva inglobato Izquierda Unida, lista erede dei comunisti) e Ciudadanos portarono nel Congresso 71 e 32 rappresentanti. In altri termini, i cittadini spagnoli avevano confermato la loro volontà di archiviare il bipartitismo e, indirettamente, avevano invitato le forze politiche a trovare intese durature.
Al contrario, i leader (in particolar modo Rajoy, Sánchez e il responsabile di Podemos Pablo Iglesias) continuarono anche dopo la ripetizione del voto a opporsi a ogni scenario che prevedesse l’arrivo di partiti diversi dal proprio al Palacio de la Moncloa, sede del Capo del Governo. In quel contesto Mariano Rajoy non poté sottrarsi all’onere di tentare di dare un Esecutivo al Paese e, dopo aver stretto anch’egli un’intesa con Ciudadanos (il partito guidato da Albert Rivera si rivelò il più desideroso di uscire dallo stallo), si presentò al cospetto del Parlamento all’inizio di settembre 2016.
Il ‘muro di gomma’ su cui si era infranto Pedro Sánchez si rivelò di nuovo imperforabile, e anche il premier uscente da ottobre 2015 venne bocciato dal Congresso, dal momento che i 170 sì del Pp e del suo alleato furono superati dai no espressi da Psoe, Podemos e formazioni regionali. Malgrado gli appelli a non sopprimere di nuovo sul nascere una Legislatura e i richiami alla responsabilità dinanzi ai cittadini provenienti dai principali giornali e dai più importanti gruppi imprenditoriali spagnoli, le terze elezioni nell’arco di 12 mesi (da calendario costituzionale la data sarebbe stata addirittura quella di domenica 25 dicembre 2016) sembravano avvicinarsi inesorabilmente.
Come spesso accade in casi di questo tipo, fu un fattore esterno a sbloccare l’impasse: le elezioni regionali in Galizia e Paesi Baschi del 25 settembre 2016, che videro i socialisti ottenere dei risultati deludenti. Pochi giorni più tardi nel Psoe si verificarono gli eventi cui si deve la fine della paralisi politica in Spagna, dal momento che un Comitato Federale straordinario destituì Sánchez dalla carica di segretario e approvò un ordine del giorno in cui si stabiliva che gli 86 deputati del partito si sarebbero astenuti per consentire ai popolari di rimanere al Governo. Alla fine di ottobre 2016 Rajoy poté dunque tornare in Parlamento per ottenere il via libera alla nascita dell’Esecutivo che oggigiorno guida la nazione iberica, sulla base del programma messo a punto con Ciudadanos, che ha tuttavia scelto di non indicare né ministri né sottosegretari.
Dunque, dopo oltre 10 mesi di braccio di ferro è stata la ‘resa incondizionata’ di uno dei soggetti in campo (quella scelta ha lasciato strascichi non da poco tra i socialisti, sfruttati da Pedro Sánchez per tornare a esserne segretario nella primavera 2017) a permettere alla politica spagnola di superare la crisi derivante dalla mancanza di un Governo con pieni poteri e di entrare definitivamente in una nuova epoca, malgrado la questione catalana stia mantenendo elevate le tensioni tra partiti a Madrid.
Per l’Italia l’affermazione di M5S e Lega, con la disfatta del Pd e l’arretramento di Forza Italia, rappresenta molto probabilmente il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica. L’auspicio è che nel nostro caso l’assenza di maggioranze alla Camera e al Senato non porti a un blocco totale dell’attività legislativa e a una lunga permanenza di Paolo Gentiloni nel ruolo di premier ‘per il disbrigo degli affari correnti’. Se in altri Paesi uno scenario di questo tipo non ha comportato conseguenze rilevanti né sul piano interno né sui mercati, non è scontato che lo stesso valga anche per il contesto italiano, e per di più uno stallo senza via di uscita smentirebbe una delle abilità per cui siamo più noti al mondo: quella di arrivare a dei compromessi anche nelle circostanze più difficili.