Mario Draghi deve aver preso per buono l’adagio reso celebre da John Belushi, “quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”, declinandolo ovviamente nel suo stile sobrio e ben lontano da fasti ed eccessi del protagonista di Animal House. Ma è una lezione che il neo Presidente del Consiglio ha assimilato da molto tempo, dandone prova a più riprese nella sua fulgida carriera e non smentendosi neanche nelle prime uscite al vertice del nuovo Governo.
Basta prendere ad esempio la netta volontà di allontanarsi da tutta una serie di decisioni e comportamenti che hanno caratterizzato gli inquilini di Palazzo Chigi dell’ultimo ventennio, partendo dalla comunicazione che sarà istituzionale e improntata nella ferrea logica, che suona quasi come un insegnamento materno d’altri tempi, del “parlo se ho qualcosa da dire”.
Non è di certo un caso che Draghi abbia scelto Paola Ansuini a guidare la comunicazione con la quale vanta il comune pedigree Bankitalia e, va da sé, lo scarso interesse per i social, i rumors e le anticipazioni via chat.
Questo è perché Draghi si concentrerà sui fatti e non sulle chiacchiere: la dignità che ha dato all’ecologia, tema per anni sbandierato da molti ma in sostanza trascurato da tutti, ne è ampia dimostrazione.
Si può avere dunque il discreto sentore che Draghi farà parlare le riforme e che le riforme parleranno per Draghi, testimoniando la bontà o meno del suo operato. Tra i tanti ambiti a cui tocca metter mano spicca la riforma fiscale che è l’architrave della politica di bilancio ma anche chiave di volta per porre fine a tutta una serie di squilibri sociali che a loro volta rallentano la crescita economica nazionale.
Partendo dai dati di contesto: l’Italia è il terzo Paese con la più alta tassazione sul lavoro in Europa e il primo tra le economie più avanzate del Vecchio Continente. Si basa su di un sistema datato, l’Irpef, basato su di una singolare reinterpretazione del pensiero di Robin Hood: alle categorie più indigenti il welfare garantisce praticamente ogni esenzione, ai più abbienti (leggersi ricchi e ricchissimi) il sistema chiede poche briciole mentre mostra un accanimento selettivo sul cosiddetto “ceto medio”, ovvero i lavoratori dipendenti con un reddito lordo tra i 26mila e i 40mila euro annui, dove si verifica un salto dell’aliquota dal 27% al 38% arrivando a prelevare addirittura 61euro ogni 100euro guadagnati, o meglio, dichiarati.
La conseguenza è presto detta: impoverimento della colonna portante dei contribuenti, prolungamento della stagnazione dei consumi e conseguente incapacità di ridare spinta vitale alla domanda interna, indispensabile per la crescita del PIL.
Il primo nodo da sciogliere riguarderà la scelta del sistema: duale, quindi suddiviso per redditi e capitali, oppure con un’unica forma di tassazione, avvicinandosi dunque al modello progressivo tedesco. In alternativa ha fatto capolino anche il sistema danese: uno schema vincente applicato dal piccolo stato nordico nel 2008 che però, per un grande stato zavorrato dal debito come l’Italia ha una controindicazione: quel modello tagliò di oltre due punti il PIL per ridurre le imposte sui redditi. Un qualcosa che l’Italia non può permettersi, considerando un debito di oltre 2.500 miliardi e una finanza pubblica agonizzante da vent’anni.
Una carta che giocherà senz’altro il nuovo inquilino di Palazzo Chigi per adottare la cura della progressività fiscale sarà quella di fare andare di pari passo la riforma fiscale con quella della pubblica amministrazione, considerando che proprio quest’ultima, resa chiaramente esangue dall’emergenza Covid, ha visto schizzare il suo fabbisogno nel 2020 a 152,4 miliardi di euro.
Sul lungo periodo Draghi punta a recuperare risorse attraverso un serio contrasto al sommerso ma, è fatto noto, che la lotta all’evasione per dare i suoi frutti deve diventare strutturale e occorre tempo. Un’altra via potrebbe essere una tentazione antica e assai rischiosa: lo spostamento della tassazione dalle persone alle cose. Mossa insidiosa per il neo Presidente, considerato che la tassazione sugli immobili è lievitata pesantemente con l’introduzione dell’IMU e che lo spettro delle clausole di salvaguardia sull’IVA appena disinnescate – croce e delizia di tanti titolari del MEF – è ancora in agguato.
L’ultima risorsa nella mano di Draghi è gettare esche a capitale straniero per procurarsi investimenti: altro gioco da funambolo, considerato il ginepraio normativo italiano sul quale va adottata la scure della semplificazione. Per portare a casa il Professor Draghi ha messo in piedi un dream team, una super commissione con nomi quali Massimo Bordignon e Carlo Cottarelli che dovrà presentare una revisione entro marzo.
Gli ostacoli sulla via della riforma fiscale per Draghi sono dunque tanti ma una cosa è certa: non saranno dovuti alla volontà delle forze politiche di intestarsi un modello piuttosto che un altro delle quali, anche considerando i numeri in Parlamento ottenuti, il banchiere italiano più noto al mondo francamente se ne infischierà.